L’idea di Angela Merkel non meritava il clamore che ha suscitato in Italia. La proposta di ridurre l’orario settimanale (con contemporanea riduzione della retribuzione) allo scopo di difendere i posti di lavoro (una specie di “lavorare meno, lavorare tutti” dei tempi di recessione) presenta un certo grado di buon senso, tanto che noi ci avevamo già pensato da qualche decennio mediante la cassa integrazione guadagni (che può essere a 32, 24, zero ore, a rotazione e quant’altro). Prima della riforma dei primi anni ‘90 eravamo diventati così bravi ad abusare della cassa integrazione da aver “allevato” generazioni di lavoratori fintamente occupati in imprese decotte, scomparse o inesistenti: lavoratori che hanno incassato il sussidio pubblico senza aver lavorato per anni (spesso tanti), o magari lavorando nel sommerso.
Angela Merkel, dunque, ha ben poco da insegnarci. Se non fosse per l’impatto mediatico che la proposta ha prodotto, probabilmente non ne parleremmo neppure. Ormai però siamo nelle mani di un mondo dell’informazione che, quando trova la notizia, non rinuncia ad imporla all’opinione pubblica. Prendiamo da ultimo il caso dell’indagine Istat sulla povertà. È passato in secondo piano che i dati risalissero al 2007 e che, a considerare la sequenza storica, avere un 5% di famiglie povere fosse un dato strutturale del Paese.
Tornando a noi, la proposta della settimana corta “made in Germany” qualche risultato lo ha ottenuto. Ha messo in evidenza una disponibilità al confronto tra Governo e parti sociali: queste ultime sembrano disposte (fatte salve le riserve, non ostative, della Cgil) a misurarsi con soluzioni eccezionali e flessibili, in grado di fronteggiare la crisi (ma saranno poi corrispondenti alla realtà i toni drammatici di certe analisi?). Vedremo presto se l’iniziativa del ministro Maurizio Sacconi, che ha colto l’assist della Markel per portare avanti il suo progetto, riuscirà ad impegnare Confindustria e sindacali su posizioni di collaborazione responsabile.
I grandi quotidiani, quando c’è di mezzo la Confederazione di Epifani sono sempre pronti a scambiare un educato starnuto per un tuono fragoroso. Valutazioni entusiaste sono venute dal Prc. Che dire allora? Timeo danaos et dona ferentes. In sostanza: attenti alle furbizie (quelle di Epifani e dei suoi, per intenderci). Traspare dalle opinioni espresse dalle componenti sindacali e partitiche della sinistra un approccio al problema di carattere rigido, come se si trattasse di imporre, magari per legge, una riduzione generalizzata della settimana lavorativa allo scopo di salvaguardare comunque i livelli d’occupazione. In pratica, nei prossimi mesi, perdurando la crisi, emergeranno parecchi problemi a partire da una riduzione della retribuzione (compensata però dagli ammortizzatori sociali). Esistono nel movimento sindacale e nella sinistra l’intenzione di trasformare la settimana corta in un sostanziale blocco dei licenziamenti. Si determinerebbe, in questo modo, una sorta di imponibile di manodopera che ingesserebbe le aziende e l’economia.
Ecco perché è bene attendersi un’intesa di principi tra Governo e parti sociali, da adattare con tanta flessibilità alle situazioni concrete. In taluni casi si farà ricorso alla cassa integrazione, in altri ai contratti di solidarietà, in altri ancora a licenziamenti collettivi, se essi serviranno a rimettere in sesto le imprese. L’importante sarà che tutti gli strumenti disponibili concorrano a limitare i danni e a contenere gli effetti sociali della crisi. Ma la linea della “fabbrica affollata” non ha mai risolto i problemi.