Crisi è una parola che suscita molta apprensione. In un solo anno abbiamo avuto quella dei mutui, quella del petrolio, quella alimentare, quella finanziaria, quella economica, solo per citare le principali.

Più ne parlano giornali e telegiornali, più copie si vendono, più audience si conquista. Lo diciamo non per sottovalutarne l’importanza, ma per avviare una riflessione serena. Crisi in origine significa giudizio e, anche, scelta o decisione. Invece di solito indica una situazione gravissima. Se torniamo al suo significato originario comprendiamo che le crisi servono per analizzare i fenomeni e per prendere decisioni.



In questa luce vogliamo considerare i rapporti fra crisi economica e settore agroalimentare. Solo pochi mesi fa la preoccupazione maggiore in tutto il mondo sembrava la carenza di alimenti. Vertici mondiali tardivi e inconcludenti si sono susseguiti, il panico si è diffuso, i governi di tutto il mondo hanno improvvisato politiche agricole di tipo protezionistico con ciò aumentando gli effetti negativi di un fenomeno di squilibrio fra offerta e domanda di prodotti agricoli non infrequente e che si è tradotto in una fiammata dei prezzi. Negli ultimi trent’anni se ne sono avute almeno tre di cui una, nel 1979, di dimensioni superiori.



Gli effetti sono diversi nei singoli Paesi, soffermiamoci su quelli di un Paese come il nostro, prescindendo, per quanto possibile, da quelli che sono alla fame. L’aggravarsi della crisi mondiale, prima finanziaria e poi trasferita all’economia reale, costituisce un problema serio anche da noi e richiede una grande attenzione, ma tenendo i nervi saldi.

Nel giro di un anno si è passati dai timori di un surriscaldamento dell’economia reale a quelli dell’inflazione, poi all’incubo della stagnazione unita alla crescita dei prezzi, infine all’attuale situazione di recessione e cioè al calo degli indicatori di crescita per sei mesi. In questi casi i consumi alimentari di solito vanno in controtendenza, perché anche nelle crisi economiche ci si deve alimentare, mentre si possono ritardare o differire altri acquisti.



Da questo punto di vista, l’esaurirsi della fiammata dei prezzi agricoli, tornati a valori inferiori a quelli iniziali, può aiutare, ma i consumatori non se ne accorgono. I prezzi al consumo risentono del fatto che gli alimenti vengono lavorati, trasformati, distribuiti e che tutte queste fasi portano con sé dei costi.

Molti alimenti dipendono da importazioni o direttamente o per le materie prime necessarie che non produciamo in Italia, ad esempio gli alimenti per il bestiame con cui poi si fanno formaggi e salumi. Se l’economia rallenta calano anche i consumi di questi alimenti, in misura maggiore per i più cari e minore per quelli più economici. Chi li vende deve cercare di renderli convenienti per farsi preferire da un consumatore che torna a fare conti e confronti.

La grande distribuzione registra una flessione dei consumi minore del dettaglio tradizionale perché è in grado di ridurre i costi commerciali e di imporre prezzi più contenuti all’industria e all’agricoltura. Il vero snodo è questo, mentre sono solo utopie i discorsi accattivanti per i loro richiami, ma ininfluenti sulla sostanza.

Per favorire i consumi, i cibi devono diventare più convenienti, non più costosi. Per anni abbiamo fatto il contrario, giocando la carta dei prodotti di nicchia e perdendo di vista la competitività dei prodotti italiani. Abbiamo favoleggiato sul “piccolo è bello” dimenticando che serve potere contrattuale nei confronti dell’industria e della grande distribuzione offrendo volumi importanti di prodotti, di qualità garantita e costante, idonei ai diversi utilizzi. Dobbiamo renderli sempre più buoni e belli, ma meno cari. Le crisi devono servire anche a capire questo, altrimenti sono solo sacrifici inutili. Ne riparleremo.