Il decreto del governo contiene le prime misure essenziali per assicurare la tenuta minima del potere d’acquisto e per limitare gli effetti negativi della stretta creditizia. Il punto debole del nostro paese è il debito pubblico: ecco perché quando dovremo rifinanziare il nostro debito avremo bisogno di conti in ordine. Le imprese? A dispetto di euro forte e Cina sleale, hanno fatto segnare cifre record, ma ora soffrono la crisi della domanda mondiale. La priorità? Contenere il debito pubblico e garantire l’afflusso di credito alle Pmi anche per l’operatività corrente. Lo spiega Marco Fortis, economista e vicepresidente della Fondazione Edison, a il sussidiario.net.
Professore, il governo ha finalmente approvato il decreto anticrisi. L’intervento dello Stato nelle banche le sembra garantire l’esigenza di far arrivare il credito al sistema produttivo?
Staremo a vedere. Sicuramente l’obiettivo di arginare il credit crunch deve essere prioritario per un paese come l’Italia, dove il sistema di filiera tra imprese, fornitori e subfornitori che costituisce l’ossatura delle nostre Pmi rende necessario l’afflusso di credito anche per l’operatività corrente. Il problema esiste, perché un razionamento del credito c’è stato davvero, come dimostrano le statistiche documentate da Confindustria, da Cna e da molti altri e come si può evincere dagli stessi imprenditori. Bene dunque il sostegno alle banche a condizione che queste si impegnino a non far mancare il credito alle imprese.
Ha colpito, e suscitato critiche, la determinazione con la quale il governo ha difeso la volontà di stare dentro i parametri del patto di stabilità. Altri Stati si sono mostrati molto più possibilisti.
L’Italia, per la sua tradizione passata di finanza allegra, è un sorvegliato speciale. Una cosa è certa: per i paradigmi con cui oggi nel mondo i mercati finanziari guardano l’Italia, sgarrare sui conti pubblici per il nostro paese sarebbe un harakiri clamoroso. Nei prossimi mesi assisteremo ad una delle più aspre battaglie per l’ottenimento di credito su scala mondiale, non solo da parte di tutte le banche, ma da parte degli Stati stessi, che per finanziare un aumento del loro debito cercheranno di collocare un numero crescente di titoli statali di debito.
In questa fase, sta dicendo, occorrerà dar prova della massima solidità di bilancio…
Sì, perché stiamo andando verso un periodo in cui in un mercato di capitali sempre più arido tutti chiederanno soldi al mercato mondiale. Anche l’Italia dovrà farlo: si calcola che sono in scadenza circa 300 mld di euro di titoli di Stato che dovranno essere rifinanziati. Presentarsi a questo appuntamento con i conti in disordine sarebbe come presentarsi al nemico senza scudo e senza lancia. E la gente si precipiterebbe a comprare titoli di altri paesi o banche al posto dei nostri.
Ad essere sotto accusa è sempre il nostro debito pubblico. Davvero il nostro stato di salute è così grave?
Dopo la crisi il mercato internazionale è basato su criteri che nascondono una realtà diversa. E il motivo è semplice: basta vedere la composizione del debito “aggregato”, fatto cioè di debito pubblico più debito privato. Abbiamo una situazione reale migliore di quella degli altri ma percepita dai mercati ancora come cattiva. Intanto che non si cambieranno i paradigmi con cui l’Italia viene giudicata nei consessi internazionali, contenere la spesa pubblica e contenere il deficit di bilancio è un imperativo categorico.
Cosa non funziona nei criteri di rating che lei mette sotto accusa?
Finché non riusciamo a convincere la comunità internazionale degli investitori che lo Stato italiano è molto più solido, per esempio, della Royal Bank of Scotland – come dimostra il fatto che solo lo Stato inglese ha sottoscritto l’aumento di capitale di questa banca, a fronte del solo 0,2% di privati – passeremo dalla parte degli spendaccioni. Il nostro debito pubblico fluttua dal 100 al 105% del Pil ormai da tanti anni e quindi è sostanzialmente sotto controllo. Il nostro debito aggregato si è attestato al 138% del Pil nel 2007, mentre la Gran Bretagna lo ha visto aumentare dal 111% del 2001 al 144% del 2007. La vera novità della crisi è l’esplosione del debito privato europeo – non parlo naturalmente di quello Usa – mentre l’Italia è tra i paesi più virtuosi. Purtroppo però agli investitori esteri non interessa affatto il nostro basso debito privato.
Qual è la sua conclusione?
Siamo stati a discutere se si poteva spendere un miliardo in più o in meno per la manovra, ma pensiamo cosa potrebbe voler dire per i cittadini se anche solo 10 mld di debito pubblico da rifinanziare non venissero ri-sottoscritti. Quella è la vera priorità. È vero, siamo noi i responsabili della cattiva gestione del nostro debito pubblico, che risale agli anni ’70-’90. Ma anche gli altri hanno fatto la finanza allegra, solo che anziché farla con il debito pubblico, l’hanno fatta con il debito privato. Però abbiamo visto a cos’ha portato la sua spalmatura con strumenti finanziari di dubbia eticità. Non è stato un caso che sia stata proprio Fortis la prima banca in Europa ad esser aiutata: l’Olanda ha il più alto debito privato dell’area euro, che nel 2001 era pari al 75% del Pil ma che nel 2007 è salito al 103%. E sto citando dati del 2007: immaginiamo quelli del 2008 e del 2009.
Si dice che le crisi sono un’occasione imperdibile di rilancio, può esserlo anche per la nostra impresa?
La componente più dinamica della nostra economia è rappresentata dalle esportazioni. L’economia attivata dall’export è molto più grande di quella rappresentata dai fatturati e dai valori aggiunti generati dall’export stesso, perché incorpora un indotto enorme, che comprende anche i servizi. Il nostro surplus commerciale manifatturiero è passato dai 41 mld di gennaio 2006 ai 61,5 mld di settembre 2008. Ecco, nonostante un euro fortissimo, che avrebbe piegato le gambe a qualunque esportatore, e una competizione cinese sostenuta in modo artificioso dalla svalutazione competitiva dello yuan, siamo arrivati ad avere l’industria italiana più competitiva dal dopoguerra, proprio quando la crisi ha sospeso il “campionato” della competitività. L’unica cosa di cui hanno bisogno le nostre imprese è che riparta la domanda mondiale.
Cosa ne pensa delle misure adottate dal governo?
Il governo ha adottato le prime misure, ma se dovesse verificarsi una drastica caduta della domanda interna, dovrebbe prendere altre contromisure. Il primo provvedimento importante era sostenere i ceti meno abbienti e credo che sia stato questo lo spirito della manovra. Nello stesso tempo, con i pochi soldi che ci sono, occorreva sostenere l’operatività delle Pmi: un provvedimento come quello dell’Iva di cassa va senz’altro in questa direzione. Bene le misure che inducono le banche a erogare credito, o misure che possono sembrare estemporanee, come quella di sveltire l’utilizzo dei fondi già stanziati per le imprese pubbliche.
Nel dibattito che ha preceduto il decreto si è parlato della necessità di incentivare i consumi. Condivide più la filosofia «investimenti, crescita, consumi», oppure «consumi, crescita, quindi investimenti»?
Per un paese esportatore come il nostro la domanda interna non è decisiva per far ripartire l’economia, perché la nostra domanda interna è stagnante da sette anni. E non possono certo risollevarla provvedimenti come la detassazione delle tredicesime o simili. Dobbiamo sempre tener presente il quadro di sfondo delle nostre considerazioni, che è quello di una crisi mai vista, in cui negli Usa si annunciano licenziamenti per 30-40mila persone per volta. Senza parlare di chi ha redditi bassi, mi chiedo: le famiglie moderatamente abbienti, che hanno avuto minusvalenze sui propri investimenti in borsa o titoli, potranno aumentare i consumi? Non credo. Né potranno farlo provvedimenti “a puntura di spillo”. L’Italia deve fare quadrato sperando che riparta la domanda mondiale nel 2010.
…torniamo alle misure del governo. I finanziamenti alle infrastrutture?
Penso che il volano garantito da una ripresa delle opere infrastrutturali può essere forse l’unico aiuto concreto che si può dare alla domanda interna; magari con la creazione di un commissario ad acta, esattamente come è stato fatto per i rifiuti di Napoli, per accelerare la gestione dei fondi e la ripartenza delle opere. Ma l’unico vero aiuto che può venire ai consumi privati, secondo me, è un rilancio delle Borse, che ridarebbe fiducia a tutti coloro che hanno subito un’emorragia di valore nel proprio risparmio.