Dopo il caso dei bond argentini e il crac Parmalat si è molto discusso sulle responsabilità delle banche per aver venduto ai risparmiatori prodotti spazzatura. Il Parlamento con tempi lunghi, ma con foga reattiva, ha partorito la legge sulla tutela del risparmio. Ultimamente, mentre qualcuno credeva alle capacità demiurgiche del private equity e guardava con sospetto ai fondi hedge, sono venuti alla ribalta i problemi legati ai derivati, al credito al consumo e ai mutui subprime che hanno innescato le recenti turbolenze dei mercati finanziari, con drastica riduzione della liquidità e incremento dei premi per il rischio creditizio. Le ripercussioni sul nostro sistema bancario sono state meno intense per la sua minore esposizione a quegli strumenti finanziari e per la rilevanza dei depositi della clientela fra le fonti di raccolta.

Di fronte a quanto è successo, come sempre, si sono invocate, con una buona dose di demagogia, leggi più restrittive. Non importa se poi la realtà ha già mostrato che più regole non vuol dire automaticamente maggiore trasparenza e meno brogli. Di sicuro, semmai, c’è solo la certezza di maggiori costi. Neppure importa se a gennaio si è registrato il deflusso peggiore di sempre dal risparmio gestito, dopo il rosso record del 2007, che di fatto significa togliere risorse al sistema produttivo preferendogli il debito pubblico col ritorno ai bot-people. In compenso il dibattito nostrano ha dedicato tempo ed energie a discettare su come trasformare le popolari, soprassedendo al tema ben più serio dei conflitti di interesse all’interno dei gruppi bancari.

In questi anni sono stati introdotti anche da noi i nuovi principi contabili internazionali, le regole di Basilea 2, la direttiva Mifid e altre disposizioni europee. Provvedimenti che rispondono alle mutate esigenze di una finanza che agisce in tempo reale e su scala globale con implicazioni per la stabilità dei mercati e per i metodi di misurazione e gestione dei rischi. Spesso, però, sono stati recepiti nel nostro ordinamento con scarso vaglio critico e con un impatto diretto sugli operatori che tendono ad applicare le soluzioni più restrittive per tutelarsi da responsabilità sempre più pesanti. Si scoraggia l’assunzione anche dei naturali rischi d’impresa, trasformando i manager in semplici esecutori di procedure. Il problema purtroppo non è di singole persone o di specifiche situazioni, ma della cultura negativa che permea i rapporti sociali ed economici in genere. Si pensa di sostituire la fiducia, fattore indispensabile per l’economia, con un’overdose normativa. Basta guardare alla quantità di moduli dai contenuti illeggibili necessari solo per aprire un conto corrente. Nessuno nega la necessità delle regole, e il buon senso suggerisce che dovrebbero essere poche e chiare, ma si torni a un atteggiamento positivo verso la cultura del rischio. Quindi a una scelta forte per lo sviluppo. E questo implica anche un efficiente sistema finanziario, che, per la nostra economia fatta prevalentemente da piccole imprese, vuol dire essenzialmente buone banche dotate di un management capace di attrarre risparmio e di sostenere la crescita delle aziende. In Italia ciò è doveroso, visto il dato di forza rappresentato dalla raccolta sul territorio. E si lascino stare le popolari, per le quali va sì auspicata una riforma, o meglio un’autoriforma, che sia però dettata dalla realtà che cambia e non imposta dai pregiudizi o dagli opportunismi di troppi benpensanti interessati.


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