La crisi attuale dei mercati finanziari ha origine nella crisi dell’intero processo di securitisation, che ha trasformato i prestiti in titoli di mercato, facendoli uscire solo apparentemente dai bilanci bancari. È stata emessa una grandissima quantità di strumenti di debito a un prezzo eccessivo. La febbre di dilatare i ricavi ha spinto a distorcere l’aspetto positivo della securitisation (rendere trasferibile il rischio) fino a renderla una macchina che ha generato prodotti sempre più complessi e meno trasparenti. Questa montagna di titoli è stata emessa senza un meccanismo di determinazione dei prezzi adeguatamente trasparente, quotata su mercati del tutto opachi (gestiti dagli stessi emittenti), distribuita con modalità che impediscono ancora di capire esattamente su quali banche ricadranno i rischi e in che misura.
Questa situazione non mostra solamente il fallimento del mercato, ma anche del sistema di regolamentazione. La struttura della supervisione bancaria, infatti, ha messo in evidenza profondi difetti. In primo luogo, gli strumenti a disposizione si sono rivelati inadeguati e spesso superati. Lo dimostra il fatto che nella crisi di Northern Rock, la Banca d’Inghilterra non ha avuto adeguati margini di manovra per iniettare mezzi liquidi nelle banche in difficoltà, mentre il sistema di assicurazione dei depositi si è rivelato assolutamente inadatto a rassicurare i risparmiatori e a dissuaderli dal correre a prelevare i depositi. Inoltre, sono emerse gravi lacune nell’architettura dei poteri di vigilanza. E ancora una volta proprio l’Inghilterra ha dimostrato che la banca centrale, per esercitare al meglio la sua funzione di garante della liquidità del sistema, ha bisogno delle informazioni sui singoli intermediari che possono venire solo se essa esercita anche la funzione di vigilanza. Il modello del single regulator adottato fin dal primo governo Blair è uscito sicuramente ridimensionato dalla recente crisi. Infine, il rischio effettivamente sopportato dalle banche è risultato di gran lunga superiore a quello che risultava al mercato e agli stessi regolatori. I veicoli della securitisation (gli Spv che già tanti problemi avevano creato nei casi Enron e Parmalat) occultavano in realtà rischi che le banche sono state alla fine costrette a fronteggiare.
Per quanto riguarda Eurolandia, nonostante l’azione della Bce sia stata ammirevole per tempestività e decisione, appare in tutta la sua gravità la mancanza di poteri di supervisione a livello accentrato. Come ha già sottolineato Padoa-Schioppa, non c’è stata un’analisi comune dei problemi, né una condivisione di informazioni riservate o una riunione d’urgenza tra regolatori nazionali. Eppure è da qui che bisogna partire se vogliamo davvero disegnare per il futuro regole più efficaci. Solo autorità più forti nei rispettivi paesi e coordinate nell’azione sui mercati internazionali possono avere struttura e forza politica adeguata per imporre le poche, ma non indolori, misure necessarie per incanalare in modo più ordinato il flusso impetuoso dell’innovazione finanziaria.
Preoccupa dunque che le autorità non abbiano affermato con forza la necessità di cambiamenti radicali per evitare che in futuro si ricada negli stessi problemi. Certo non si pretende di ingessare il mercato in regole eccessive, ma va ricordato che la miglior cura è costituita da norme di trasparenza e di informazione. Ma non sarà facile imporle e i problemi cresceranno se non si evidenzia subito il nesso fra gli interventi straordinari e le regole future. Anche perché se le grandi banche vorranno tornare ai livelli di ricavi (e quindi di profitto) del passato, saranno indotte a ricadere negli eccessi che hanno sostenuto quel livello di ricavi. In fin dei conti, questa è la crisi finanziaria più grave da 80 anni a questa parte. Ma nel 1929 le banche pagarono il salvataggio con riforme di grande severità, sia negli Usa che in Europa. Questa volta non appaiono possibili, né auspicabili, mutamenti di rotta così bruschi: ma molti particolari che avrebbero dovuto garantire la solidità patrimoniale delle banche non hanno funzionato e vanno modificati.
Questa situazione non mostra solamente il fallimento del mercato, ma anche del sistema di regolamentazione. La struttura della supervisione bancaria, infatti, ha messo in evidenza profondi difetti. In primo luogo, gli strumenti a disposizione si sono rivelati inadeguati e spesso superati. Lo dimostra il fatto che nella crisi di Northern Rock, la Banca d’Inghilterra non ha avuto adeguati margini di manovra per iniettare mezzi liquidi nelle banche in difficoltà, mentre il sistema di assicurazione dei depositi si è rivelato assolutamente inadatto a rassicurare i risparmiatori e a dissuaderli dal correre a prelevare i depositi. Inoltre, sono emerse gravi lacune nell’architettura dei poteri di vigilanza. E ancora una volta proprio l’Inghilterra ha dimostrato che la banca centrale, per esercitare al meglio la sua funzione di garante della liquidità del sistema, ha bisogno delle informazioni sui singoli intermediari che possono venire solo se essa esercita anche la funzione di vigilanza. Il modello del single regulator adottato fin dal primo governo Blair è uscito sicuramente ridimensionato dalla recente crisi. Infine, il rischio effettivamente sopportato dalle banche è risultato di gran lunga superiore a quello che risultava al mercato e agli stessi regolatori. I veicoli della securitisation (gli Spv che già tanti problemi avevano creato nei casi Enron e Parmalat) occultavano in realtà rischi che le banche sono state alla fine costrette a fronteggiare.
Per quanto riguarda Eurolandia, nonostante l’azione della Bce sia stata ammirevole per tempestività e decisione, appare in tutta la sua gravità la mancanza di poteri di supervisione a livello accentrato. Come ha già sottolineato Padoa-Schioppa, non c’è stata un’analisi comune dei problemi, né una condivisione di informazioni riservate o una riunione d’urgenza tra regolatori nazionali. Eppure è da qui che bisogna partire se vogliamo davvero disegnare per il futuro regole più efficaci. Solo autorità più forti nei rispettivi paesi e coordinate nell’azione sui mercati internazionali possono avere struttura e forza politica adeguata per imporre le poche, ma non indolori, misure necessarie per incanalare in modo più ordinato il flusso impetuoso dell’innovazione finanziaria.
Preoccupa dunque che le autorità non abbiano affermato con forza la necessità di cambiamenti radicali per evitare che in futuro si ricada negli stessi problemi. Certo non si pretende di ingessare il mercato in regole eccessive, ma va ricordato che la miglior cura è costituita da norme di trasparenza e di informazione. Ma non sarà facile imporle e i problemi cresceranno se non si evidenzia subito il nesso fra gli interventi straordinari e le regole future. Anche perché se le grandi banche vorranno tornare ai livelli di ricavi (e quindi di profitto) del passato, saranno indotte a ricadere negli eccessi che hanno sostenuto quel livello di ricavi. In fin dei conti, questa è la crisi finanziaria più grave da 80 anni a questa parte. Ma nel 1929 le banche pagarono il salvataggio con riforme di grande severità, sia negli Usa che in Europa. Questa volta non appaiono possibili, né auspicabili, mutamenti di rotta così bruschi: ma molti particolari che avrebbero dovuto garantire la solidità patrimoniale delle banche non hanno funzionato e vanno modificati.