La frenata economica mondiale è la vera emergenza che tutte dovrebbe precedere. Chiunque ha detto e ripetuto che la crisi finanziaria in corso sui mercati mondiali dallo scorso agosto non avrebbe toccato l’economia reale o mentiva sapendo di mentire o non sapeva di che parlava. Il Pil americano è in netta frenata, e la produttività salita nel 2007 dell’1,8% – sempre moltissimo rispetto ai dati ai quali siamo abituati noi in Italia, ma questo non fa testo – per la prima volta in più di un decennio è cresciuta meno dei prezzi interni; il che significa che è in crisi il meccanismo che ha permesso agli Usa dall’inizio degli anni ’90 di continuare a crescere grazie al maggior reddito disponibile dei lavoratori dipendenti – e ai loro acquisti – che pure grazie alla produttività cresceva meno dei margini e dei profitti delle imprese. Era questo meccanismo a rendere conveniente l’acquisto di centinaia e centinaia di miliardi di asset denominati in dollari da parte del sistema bancario cinese: titoli del debito pubblico americano, e obbligazioni private.
L’andamento favorevole dei profitti sosteneva i corsi di borsa americani, come l’avvaloramento del patrimonio immobiliare statunitense rendeva sostenibile un indebitamento delle famiglie crescente e con picchi sino al 20% superiore al reddito disponibile, senza che le banche e le società finanziarie prestatrici si sentissero troppo esposte, perché dalla domanda interna che così si alimentava tutti avevano di che guadagnare. Lavoratori americani, banche Usa, il Tesoro americano che riversava i problemi di cambio del dollaro sulle spalle del mondo intero, le banche cinesi che accumulavano titoli ad alto e sicuro rendimento e riserve in dollari, con tutto il surplus finanziario realizzato grazie all’export in crescita a botte del 15-18% l’anno grazie all’ammissione nel Wto alcuni anni fa.
Quando parliamo della crisi finanziaria in corso dall’agosto 2007, bisogna tenere bene a mente che è proprio questo meccanismo, ad essere andato in crisi. Ha sbagliato paurosamente il sistema politico e bancario europeo, che per mesi si è cullato nel ritornello che qui non c’era niente di paragonabile a rischio, perché il sistema banco-finanziario continentale non era esposto in maniera significativa sui subprime, i mutui a bassa solvibilità americana che – con l’afflosciamento della bolla immobiliare americana, a inizio della scorsa estate – sono stati la goccia che hanno fatto traboccare il vaso. Non è così. L’Europa, al di là della sua retorica, non ha alcuna forza autonoma rispetto alla frenata che la crisi finanziaria, intaccando i due pilastri fondamentali della crescita nell’ultimo quindicennio – l’interesse reciproco degli Usa e della Cina a sostenere il deficit commerciale della bilancia dei pagamenti dei primi, in cambio del traino delle esportazioni alla crescita della seconda – riversa sull’intera crescita mondiale. Solo chi ha enormi riserve di energia proprie, come la Russia, ed enormi capitali accumulati con i surplus di export, come la Cina, ha spalle sufficientemente forti per non dovere temere, nel breve, la frenata americana. Noi in Europa non abbiamo nessuna delle due cose. Siamo terribilmente dipendenti – vi sono eccezioni come la Francia, noi come Italia siamo a fondo classifica – da gas e petrolio straniero. Né abbiamo i fondi sovrani pubblici, grazie ai quali la Cina e gli Emirati Arabi hanno iniziato a comprare, a prezzi scontati e in pochi mesi, imponenti quote di banche e primari istituti finanziari occidentali come Citigroup, Blackstone Morgan Stanley e via proseguendo.
Facendo stato delle chiusure di Borsa di venerdì 8 febbraio scorso, le peggiori perdite su scala annuale vedono in testa Tokyo, con –24%, Stoccolma e Milano, con –23%, Parigi con –20%. Al confronto sta molto meglio Londra, che perde meno del 9%, New York, che considerando l’indice più ampio delle società quotate, lo S&P 500, perde anch’essa poco più dell’8%, che però diventa il 16% se si considera il Dow Jones Stoxx. Gli Stati Uniti dopo tre mesi di surplace hanno preso a reagire con tempismo ed energia, con tutti gli strumenti della politica economica, cioè i tassi d’interesse, la politica fiscale, e il cambio. La Fed di Bernake ha realizzato tagli record come quello di 0,75 punti base intraday, roba che non si vedeva da decenni. L’Amministrazione e il Congresso hanno concordato e varato in poche settimane tagli fiscali per 150 miliardi di dollari, un punto di Pil, che quasi raddoppieranno il deficit federale nel 2008. Il cambio sull’euro del dollaro ha sfiorato vetta 1,5, col risultato che per i turisti europei negli States è un bengodi, ma per le nostre esportazioni un disastro. L’Europa, al contrario, ha una Bce che non segue la Fed nei tagli ai tassi, se non con colpevole ritardo e per importi non paragonabili. Accadde già nel 2001, col risultato che la recessione post 11 settembre negli Usa non durò più di un trimestre, da noi la stagnazione si è protratta quasi fino al termine del 2005. In più, nessun governo europeo ha finora varato stimoli fiscali massicci per impedire che la crescita s’incarti, visto che da noi la domanda interna viene considerata un pericolo invece che un bene, e tutti pensano solo all’export che però attualmente è penalizzato dall’euro forte. In più, i paesi europei hanno continuato a salvare le banche – che sono puntualmente andate in difficoltà – secondo ottiche nazionalitarie. Lo stanno facendo in Germania, con due Landesbanken già pubbliche, nel Regno Unito con Northern Rock, in Francia su SocGen si è pronti a ripetere il copione. La logica di questi interventi è che finora le difficoltà sono intervenute sempre e solo nell’ambito dei confini di mercato nazionali, e non hanno avuto ripercussioni a catena. È una risibile fandonia, per come sono interrelati i mercati. Ma fatto sta che sinora i regolatori nazionali danno il via libera ai salvataggi nazionalitari.
Mario Draghi al G7 di Tokyo ha consegnato un’edizione aggiornata del suo rapporto sulle misure che occorrerebbe assumere, in sede internazionale, per rendere più penetrante la vigilanza dei regolatori: nuovi criteri condivisi di stabilità patrimoniale commisurati alle nuove tecniche di gestione del debito collateralizzato, e – aggiungo io – un regime di maggiore accountability per le agenzie di rating. Ma questo riguarda le insolvenze bancarie. A breve termine è il cittadino che ci rimetterà dalla crisi in corso. Ci rimetterà come risparmiatore, perché le banche ricaricheranno sulla clientela i minori utili, soprattutto sulle imprese, con quel che costa oggi il denaro a breve, visto che le banche non si fidano esse stesse l’una dell’altra. Ci rimetterà come lavoratore, visto che il tasso di creazione di nuovi posti di lavoro tenderà a diminuire e il reddito disponibile a contrarsi. Ci rimetterà come consumatore, visto che l’inflazione ha rialzato la testa e, con produttività stagnante, l’unica maniera di fronteggiare la forbice è stringere la cinghia.
Perché non sia così, visto che la Bce è indipendente e intoccabile, bisognerebbe quanto meno che i governi europei – e quello italiano – mettessero mano subito a drastici tagli alle imposte. Ma è puntualmente quel che non piace all’ortodossia che va per la maggiore, nel partito dello pseudo-rigore maastrichtiano e tra i più autorevoli editorialisti economici italiani. Dunque, beccatevi gli effetti della crisi e prendetevela con gli americani, se credete. Io preferirei risposte reali e in tempi adeguati a problemi reali, invece che chiacchiere e assoluzioni incolpa-America.
L’andamento favorevole dei profitti sosteneva i corsi di borsa americani, come l’avvaloramento del patrimonio immobiliare statunitense rendeva sostenibile un indebitamento delle famiglie crescente e con picchi sino al 20% superiore al reddito disponibile, senza che le banche e le società finanziarie prestatrici si sentissero troppo esposte, perché dalla domanda interna che così si alimentava tutti avevano di che guadagnare. Lavoratori americani, banche Usa, il Tesoro americano che riversava i problemi di cambio del dollaro sulle spalle del mondo intero, le banche cinesi che accumulavano titoli ad alto e sicuro rendimento e riserve in dollari, con tutto il surplus finanziario realizzato grazie all’export in crescita a botte del 15-18% l’anno grazie all’ammissione nel Wto alcuni anni fa.
Quando parliamo della crisi finanziaria in corso dall’agosto 2007, bisogna tenere bene a mente che è proprio questo meccanismo, ad essere andato in crisi. Ha sbagliato paurosamente il sistema politico e bancario europeo, che per mesi si è cullato nel ritornello che qui non c’era niente di paragonabile a rischio, perché il sistema banco-finanziario continentale non era esposto in maniera significativa sui subprime, i mutui a bassa solvibilità americana che – con l’afflosciamento della bolla immobiliare americana, a inizio della scorsa estate – sono stati la goccia che hanno fatto traboccare il vaso. Non è così. L’Europa, al di là della sua retorica, non ha alcuna forza autonoma rispetto alla frenata che la crisi finanziaria, intaccando i due pilastri fondamentali della crescita nell’ultimo quindicennio – l’interesse reciproco degli Usa e della Cina a sostenere il deficit commerciale della bilancia dei pagamenti dei primi, in cambio del traino delle esportazioni alla crescita della seconda – riversa sull’intera crescita mondiale. Solo chi ha enormi riserve di energia proprie, come la Russia, ed enormi capitali accumulati con i surplus di export, come la Cina, ha spalle sufficientemente forti per non dovere temere, nel breve, la frenata americana. Noi in Europa non abbiamo nessuna delle due cose. Siamo terribilmente dipendenti – vi sono eccezioni come la Francia, noi come Italia siamo a fondo classifica – da gas e petrolio straniero. Né abbiamo i fondi sovrani pubblici, grazie ai quali la Cina e gli Emirati Arabi hanno iniziato a comprare, a prezzi scontati e in pochi mesi, imponenti quote di banche e primari istituti finanziari occidentali come Citigroup, Blackstone Morgan Stanley e via proseguendo.
Facendo stato delle chiusure di Borsa di venerdì 8 febbraio scorso, le peggiori perdite su scala annuale vedono in testa Tokyo, con –24%, Stoccolma e Milano, con –23%, Parigi con –20%. Al confronto sta molto meglio Londra, che perde meno del 9%, New York, che considerando l’indice più ampio delle società quotate, lo S&P 500, perde anch’essa poco più dell’8%, che però diventa il 16% se si considera il Dow Jones Stoxx. Gli Stati Uniti dopo tre mesi di surplace hanno preso a reagire con tempismo ed energia, con tutti gli strumenti della politica economica, cioè i tassi d’interesse, la politica fiscale, e il cambio. La Fed di Bernake ha realizzato tagli record come quello di 0,75 punti base intraday, roba che non si vedeva da decenni. L’Amministrazione e il Congresso hanno concordato e varato in poche settimane tagli fiscali per 150 miliardi di dollari, un punto di Pil, che quasi raddoppieranno il deficit federale nel 2008. Il cambio sull’euro del dollaro ha sfiorato vetta 1,5, col risultato che per i turisti europei negli States è un bengodi, ma per le nostre esportazioni un disastro. L’Europa, al contrario, ha una Bce che non segue la Fed nei tagli ai tassi, se non con colpevole ritardo e per importi non paragonabili. Accadde già nel 2001, col risultato che la recessione post 11 settembre negli Usa non durò più di un trimestre, da noi la stagnazione si è protratta quasi fino al termine del 2005. In più, nessun governo europeo ha finora varato stimoli fiscali massicci per impedire che la crescita s’incarti, visto che da noi la domanda interna viene considerata un pericolo invece che un bene, e tutti pensano solo all’export che però attualmente è penalizzato dall’euro forte. In più, i paesi europei hanno continuato a salvare le banche – che sono puntualmente andate in difficoltà – secondo ottiche nazionalitarie. Lo stanno facendo in Germania, con due Landesbanken già pubbliche, nel Regno Unito con Northern Rock, in Francia su SocGen si è pronti a ripetere il copione. La logica di questi interventi è che finora le difficoltà sono intervenute sempre e solo nell’ambito dei confini di mercato nazionali, e non hanno avuto ripercussioni a catena. È una risibile fandonia, per come sono interrelati i mercati. Ma fatto sta che sinora i regolatori nazionali danno il via libera ai salvataggi nazionalitari.
Mario Draghi al G7 di Tokyo ha consegnato un’edizione aggiornata del suo rapporto sulle misure che occorrerebbe assumere, in sede internazionale, per rendere più penetrante la vigilanza dei regolatori: nuovi criteri condivisi di stabilità patrimoniale commisurati alle nuove tecniche di gestione del debito collateralizzato, e – aggiungo io – un regime di maggiore accountability per le agenzie di rating. Ma questo riguarda le insolvenze bancarie. A breve termine è il cittadino che ci rimetterà dalla crisi in corso. Ci rimetterà come risparmiatore, perché le banche ricaricheranno sulla clientela i minori utili, soprattutto sulle imprese, con quel che costa oggi il denaro a breve, visto che le banche non si fidano esse stesse l’una dell’altra. Ci rimetterà come lavoratore, visto che il tasso di creazione di nuovi posti di lavoro tenderà a diminuire e il reddito disponibile a contrarsi. Ci rimetterà come consumatore, visto che l’inflazione ha rialzato la testa e, con produttività stagnante, l’unica maniera di fronteggiare la forbice è stringere la cinghia.
Perché non sia così, visto che la Bce è indipendente e intoccabile, bisognerebbe quanto meno che i governi europei – e quello italiano – mettessero mano subito a drastici tagli alle imposte. Ma è puntualmente quel che non piace all’ortodossia che va per la maggiore, nel partito dello pseudo-rigore maastrichtiano e tra i più autorevoli editorialisti economici italiani. Dunque, beccatevi gli effetti della crisi e prendetevela con gli americani, se credete. Io preferirei risposte reali e in tempi adeguati a problemi reali, invece che chiacchiere e assoluzioni incolpa-America.