I fondi comuni d’investimento italiano non stanno passando un buon periodo: alla fine del 2007 e – a maggior ragione – all’inizio del 2008 il patrimonio gestito è sceso sotto i livelli di inizio secolo, e recentemente il governatore della Banca d’Italia ha sottolineato l’importanza di separare la gestione dei prodotti del risparmio gestito dalla loro distribuzione. Marcello Messori, Presidente di Assogestioni, l’associazione che riunisce gli operatori del risparmio gestito, riconosce che «l’attuale rapporto tra gestione e distribuzione è uno degli elementi che spiega il momento di difficoltà del settore, ma certamente non è l’unico».
«Va ricordato che c’è un’asimmetria fiscale che penalizza i fondi di investimento di diritto italiano non solo rispetto a quelli stranieri, ma anche nei confronti di altri strumenti finanziari. Inoltre, i prodotti del risparmio gestito sono sottoposti a una regolamentazione più rigorosa rispetto ad altri prodotti finanziari, i quali vengono venduti mediante lo stesso canale distributivo prevalente del risparmio gestito, cioè quello bancario». Il risultato è una concorrenza distorta, ma non solo, perché «per limitarne i danni – afferma Messori – i gestori sono spinti a retrocedere ai distributori una parte molto consistente dei costi sopportati dagli investitori».
Si tratta dunque di una situazione difficile, e per uscirne non si può pensare a una scissione immediata tra gestori e distributori, altrimenti le cose peggiorerebbero ulteriormente, «perché – spiega Messori – i prodotti del risparmio gestito sarebbero ancora maggiormente sostituiti da strumenti opachi che sono preferiti dai canali distributivi bancari perché più redditizi nel breve periodo».
Cosa fare allora, anche alla luce di quanto dichiarato da Draghi? «Credo che il governatore della Banca d’Italia sottolinei giustamente che, oggi in Italia, la modalità di rapporto tra la produzione degli strumenti del risparmio gestito e la loro distribuzione è troppo concentrata su un’unica tipologia: gran parte delle società di gestione del risparmio (Sgr) è di proprietà dei gruppi bancari e i loro prodotti sono distribuiti mediante i canali bancari “della casa madre”. Il superamento di questa eccessiva uniformità, che ostacola la concorrenza e induce alcune delle distorsioni sopra denunciate, non richiede di eliminare la proprietà bancaria delle Sgr o l’integrazione fra produzione e distribuzione che sono diffuse anche nel resto dell’Europa continentale. Si tratta invece di dare spazio a Sgr indipendenti e di dare la possibilità alle Sgr bancarie e non bancarie di operare con piattaforme distributive aperte o semi-aperte».
Questa potrebbe essere anche un’opportunità per diminuire il gap delle Sgr italiane nei confronti di quelle straniere nella raccolta dei fondi. Un divario che ha le sue radici, spiega Messori, «nella fisiologica penetrazione di prodotti del risparmio gestito di case estere in un mercato nazionale sempre più aperto, ma anche in un regime fiscale sfavorevole ai prodotti italiani, che subiscono una tassazione sul maturato anziché sul realizzato e che, perciò, a differenza dei fondi esteri, comunicano agli investitori rendimenti al netto anziché al lordo della tassazione». Un fatto, quest’ultimo, che assume rilevanza anche a causa di una diffusa assenza di “educazione finanziaria” degli investitori. Un problema che compare anche quando, racconta Messori, «i risparmiatori subiscono l’influenza dei distributori e giudicano poco rischiosi strumenti finanziari quali le obbligazioni strutturate con garanzia. Di fatto tali strumenti sono opachi, perché fondati su derivati complessi, e incorporano un forte rischio di illiquidità. Acquistando un’obbligazione strutturata con garanzia, il risparmiatore è certo di ottenere la restituzione del capitale nominale investito (e magari un piccolo rendimento nominale) alla scadenza del contratto; tuttavia, se avrà l’esigenza di liquidare il proprio investimento prima di questo termine, si troverà costretto a vendere l’obbligazione a un prezzo molto inferiore a quello di acquisto e a subire, quindi, una sensibile perdita in conto capitale. I risparmiatori italiani non percepiscono i rischi di questi prodotti complessi, opachi e illiquidi anche perché non sono messi in guardia dai distributori, che dovrebbero offrire loro un’adeguata consulenza. Al di là dei possibili conflitti di interesse indotti da una struttura di incentivi alla vendita spesso perversa e distorsiva, ciò fa emergere un problema di educazione finanziaria anche – se non soprattutto – per quanto riguarda i distributori».
«Va ricordato che c’è un’asimmetria fiscale che penalizza i fondi di investimento di diritto italiano non solo rispetto a quelli stranieri, ma anche nei confronti di altri strumenti finanziari. Inoltre, i prodotti del risparmio gestito sono sottoposti a una regolamentazione più rigorosa rispetto ad altri prodotti finanziari, i quali vengono venduti mediante lo stesso canale distributivo prevalente del risparmio gestito, cioè quello bancario». Il risultato è una concorrenza distorta, ma non solo, perché «per limitarne i danni – afferma Messori – i gestori sono spinti a retrocedere ai distributori una parte molto consistente dei costi sopportati dagli investitori».
Si tratta dunque di una situazione difficile, e per uscirne non si può pensare a una scissione immediata tra gestori e distributori, altrimenti le cose peggiorerebbero ulteriormente, «perché – spiega Messori – i prodotti del risparmio gestito sarebbero ancora maggiormente sostituiti da strumenti opachi che sono preferiti dai canali distributivi bancari perché più redditizi nel breve periodo».
Cosa fare allora, anche alla luce di quanto dichiarato da Draghi? «Credo che il governatore della Banca d’Italia sottolinei giustamente che, oggi in Italia, la modalità di rapporto tra la produzione degli strumenti del risparmio gestito e la loro distribuzione è troppo concentrata su un’unica tipologia: gran parte delle società di gestione del risparmio (Sgr) è di proprietà dei gruppi bancari e i loro prodotti sono distribuiti mediante i canali bancari “della casa madre”. Il superamento di questa eccessiva uniformità, che ostacola la concorrenza e induce alcune delle distorsioni sopra denunciate, non richiede di eliminare la proprietà bancaria delle Sgr o l’integrazione fra produzione e distribuzione che sono diffuse anche nel resto dell’Europa continentale. Si tratta invece di dare spazio a Sgr indipendenti e di dare la possibilità alle Sgr bancarie e non bancarie di operare con piattaforme distributive aperte o semi-aperte».
Questa potrebbe essere anche un’opportunità per diminuire il gap delle Sgr italiane nei confronti di quelle straniere nella raccolta dei fondi. Un divario che ha le sue radici, spiega Messori, «nella fisiologica penetrazione di prodotti del risparmio gestito di case estere in un mercato nazionale sempre più aperto, ma anche in un regime fiscale sfavorevole ai prodotti italiani, che subiscono una tassazione sul maturato anziché sul realizzato e che, perciò, a differenza dei fondi esteri, comunicano agli investitori rendimenti al netto anziché al lordo della tassazione». Un fatto, quest’ultimo, che assume rilevanza anche a causa di una diffusa assenza di “educazione finanziaria” degli investitori. Un problema che compare anche quando, racconta Messori, «i risparmiatori subiscono l’influenza dei distributori e giudicano poco rischiosi strumenti finanziari quali le obbligazioni strutturate con garanzia. Di fatto tali strumenti sono opachi, perché fondati su derivati complessi, e incorporano un forte rischio di illiquidità. Acquistando un’obbligazione strutturata con garanzia, il risparmiatore è certo di ottenere la restituzione del capitale nominale investito (e magari un piccolo rendimento nominale) alla scadenza del contratto; tuttavia, se avrà l’esigenza di liquidare il proprio investimento prima di questo termine, si troverà costretto a vendere l’obbligazione a un prezzo molto inferiore a quello di acquisto e a subire, quindi, una sensibile perdita in conto capitale. I risparmiatori italiani non percepiscono i rischi di questi prodotti complessi, opachi e illiquidi anche perché non sono messi in guardia dai distributori, che dovrebbero offrire loro un’adeguata consulenza. Al di là dei possibili conflitti di interesse indotti da una struttura di incentivi alla vendita spesso perversa e distorsiva, ciò fa emergere un problema di educazione finanziaria anche – se non soprattutto – per quanto riguarda i distributori».