Si stima che la crisi legata ai mutui subprime abbia lasciato dietro di sé perdite fra i 500 e i 600 miliardi di dollari. E si teme un contagio che coinvolga, come in una reazione a catena, dal credito al consumo, alle carte di credito, per arrivare al crollo dei fondi hedge e del private equity. Purtroppo i primi segnali di questo rischio iniziano a manifestarsi. Quella ricchezza finanziaria che si pensava fondata su una base solida si è rivelata del tutto virtuale. Un brusco risveglio che ha avuto pesanti ricadute sul costo del denaro, sull’andamento delle borse e che ha alimentato la fuga massiccia dal risparmio gestito. Di fronte a quanto è successo due sono state le reazioni. Da una parte gli ultraliberisti secondo i quali si tratterebbe di una fase fisiologica del mercato destinata a riconsegnarci una situazione migliore. Per costoro è irrilevante che un periodo di crisi non sia mai stato così lungo come quello attuale e neppure importa sapere chi ne siano le vittime. Dall’altra parte troviamo i catastrofisti, le Cassandre, coloro che non propongono soluzioni ma solo previsioni negative in attesa di poter dire: «L’avevamo detto».
Nessuna di queste due posizioni rende giustizia alla verità delle cose. Bisogna decidere da che parte stare: se inseguire l’utopia di chi crede dogmaticamente all’avanzata inesorabile del mercato piuttosto che al suo declino sognando un mondo che non c’è, o se fare i conti con la realtà in cui viviamo. Vorrà pur dire qualcosa se l’Italia, a differenza di altri paesi, è stata investita in misura minore dalla tempesta finanziaria. In altri termini si tratta di scegliere se rimanere prigionieri di un’utopia oppure sottomettersi all’esperienza. In questo secondo caso significa riscoprire le ragioni che hanno reso possibile quello che è stato definito il miracolo italiano. Un paese povero di materie prime, senza forza militare o potentati finanziari, che ha saputo creare nel tempo un modello di società e di economia il cui valore si misura nel grado di qualità della vita e di benessere diffuso che è stato raggiunto. Di tutto ciò purtroppo spesso non siamo consapevoli. E allora si finisce col restare imbrigliati da schemi mentali e da stereotipi che nulla hanno a che vedere con la nostra storia, disprezzando di fatto quel patrimonio di esperienza e di intelligenza che ci è stato consegnato. Ci si assoggetta a un pensiero unico illudendosi di essere moderni. Si sostiene per esempio che le banche popolari sono un’anomalia da superare perché non rispetterebbero i dogmi della contendibilità e del mercato. Oppure si straparla di declino e non ci si accorge di quante aziende fanno utili e vincono ogni giorno sul campo la sfida della competitività. Il mondo dell’università, che dovrebbe essere il più aperto a cogliere i segnali della realtà e a tradurli in paradigmi culturali, in molti casi si riduce a fare analisi sterili che finiscono quasi sempre con l’indurre il bisogno di consulenze inutili o con l’alimentare nuova burocrazia a scapito delle imprese già zavorrate da tasse e adempimenti. Così può capitare di trovare, navigando sul sito de Il Sole 24 Ore, tra le tesi di tanti illustri analisti, la notizia che la tecnologia del più grande telescopio del mondo realizzato in Arizona porta una firma tutta italiana, quella del gruppo industriale bresciano Camozzi. Insomma i fatti, una volta tanto, riemergono dalla coltre delle analisi, alle quali potrebbero offrire spunti di originalità e innovazione. Sono storie ed esperienze che dovrebbero riprendere il sopravvento. Per questo serve una svolta culturale che comincia restituendo il primato a chi fa, a chi si adopera per costruire ricchezza reale e quindi condizioni di vita migliori. È la sfida che è chiamato a raccogliere anche chi alle imminenti elezioni si candida a governare il paese.



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