Inutile nascondere che, in questo periodo, molti analisti di finanza ed economia siano andati a rileggersi un vecchio libro di John Kenneth Galbraith “The Great Crash”, “Il grande crollo”, la cronaca e l’analisi, più dettagliata e più impietosa, della crisi di Wall Street nel 1929 e della conseguente “grande depressione” che caratterizzò un decennio della vita del mondo occidentale, fino alle tragiche conseguenze dello scoppio della seconda guerra mondiale. Ma pensare che la storia sia maestra di vita è solamente un’ipotesi di scuola, perché i contesti sociali, economici e politici non si ripetono mai meccanicamente e quindi possiamo solo fare raffronti approssimativi con le grandi “bolle speculative”, anche quelle che Galbraith chiamava le “orge speculative”.
In più bisognerebbe tenere conto di una lezione di Lester C. Thurow, docente di economia al Mit di Cambridge in Massachusetts, sui cicli economici: «L’andamento ciclico è intrinseco al capitalismo come i terremoti lo sono alla geologia terrestre. Il capitalismo è sempre stato caratterizzato dalla presenza di cicli e continuerà a esserlo. Sui cinquant’anni trascorsi tra il 1945 e il 1995, in dieci anni (1946, 1949, 1954, 1958, 1970, 1974, 1975, 1980, 1982, 1991) negli Stati Uniti è stata registrata una contrazione della produzione, e tra il 1960 e il 1961 si è avuto un periodo di dodici mesi in cui la crescita è stata negativa, anche se non in misura così grave da dover classificare nessuno dei due anni come anno di crescita negativa. Le recessioni capitalistiche si verificano per numerosi motivi. Per ragioni a volte profonde e altre assolutamente banali, in qualche settore dell’economia la domanda inizia improvvisamente ad aumentare o a diminuire».
Le generalizzazioni, quindi, non servono assolutamente a nulla e i procedimenti razionalistici sui ricorsi storici servono ancora meno. Il problema è forse quello di affrontare la realtà con molto realismo e ragionevolezza, per comprendere, ad esempio, in questa fase storica come affrontare la nuova complessività mondiale, quella della globalizzazione. Più che mai azzeccata appare la valutazione del ministro uscente dello Sviluppo economico, Pierluigi Bersani: «Ma non c’entra il ’29, non c’entra! Anche tecnicamente il problema è del tutto improprio. Il mondo in via di sviluppo, Cina, India e America Latina, mostra nelle dinamiche economiche una relativa autonomia rispetto all’andamento dei paesi occidentali, e questo determina una situazione del tutto inedita.
L’importante è che i nostri conti siano in equilibrio, e aprire il più possibile le economie per cogliere anche i refoli di crescita che nel mondo spirano. Gli occhiali del ’29 sono vecchi, bisogna toglierseli».
Al posto di fasciarci la testa prima del necessario e di paventare crolli o “grandi crolli”, proviamo piuttosto a fare ragionamenti più elementari sul ruolo dell’economia reale, sullo strumento raffinato della finanza (che deve servire l’economia, non sostituirsi a essa), e anche su quello della politica, che dovrebbe favorire forze creative socio-economiche e correggere le distorsioni e le contraddizioni più drammatiche. Se si osserva con un minimo di realismo l’andamento degli ultimi quindici anni, si può dire che il ruolo della finanza, in Italia e nel mondo, è diventato straripante, al punto da condizionare quello dell’economia reale e della politica. Nessuno vuole demonizzare lo strumento finanziario, ma rassegnarsi alle ragioni della finanza per sostenere crescita e sviluppo è un grave errore. Il problema è quello di rilanciare e di favorire la “vecchia e cara produzione”, usando la finanza ma non dipendendo da lei. Enrico Cuccia, il finanziere che passa alle cronache, ormai storiche, come il “medico di famiglia delle grandi famiglie del capitalismo italiano”, scriveva l’8 agosto del 1978, in una minuta per la relazione di bilancio di Mediobanca, questa considerazione: «Non si può fare a meno di chiedersi se, nel caso in cui non fosse stato facilitato l’abbondante flusso di finanziamenti agevolati a taluni imprenditori – privati e pubblici – nell’illusione che non la bontà degli investimenti e la oculatezza della gestione avrebbero assicurato il successo dell’iniziativa, bensì la protezione politica quale mezzo per raggiungere il gigantismo delle imprese e con il gigantismo, non si sa come e perché, la loro fortuna, c’è da chiedersi, dicevamo, se in tal caso non avremmo avuto aziende molto più modeste, ma più sane, con una crescita fondata almeno in parte sull’autofinanziamento e non soltanto sui debiti, capacità produttive più aderenti alle effettive dimensioni dei mercati e, soprattutto, minor interferenze politiche, lecite o illecite, nella vita economica del paese».
Questa riflessione dimostra che il più grande finanziere italiano aveva colto, nello sviluppo del capitalismo una distorsione finanziaria e politica, alla fine degli anni Settanta, a tutto svantaggio della centralità dell’impresa italiana. Allora il nocciolo della questione, non è quello di seguire i listini di Borsa, che in questo trimestre sono impressionanti (calo di circa il 30%), per interpretare i cicli economici del mondo globalizzato e di quello italiano in particolare. Non si può stabilire, in base alle azzardate e ad alcune fallite architetture finanziarie, uno stato di recessione. Occorre invece guardare alla struttura produttiva, alle capacità innovative di una parte sempre più grande delle nostre imprese. In Italia c’è ormai quello che alcuni studiosi, anti-catastrofisti, giudicano il protagonista del “quarto capitalismo”, cioè il medio imprenditore che è riuscito a stare sul mercato malgrado un euro forte, la concorrenza dei giganti asiatici e una pressione fiscale da “delirio”. Basterebbe questo per dimostrare che non esiste la recessione nel nostro paese e che, riparata dai guasti della politica e liberata dalle chimere della finanza, l’impresa italiana può giocarsela con tutti ad armi pari. E una volta “ripulito il mercato”, come dicono gli americani, si imboccherà un ciclo economico favorevole, tenendo magari in considerazione gli errori dei subprime e di qualche altro marchingegno.



(Gianluigi Da Rold)

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