La crescita economica dell’Ue viene rivista al ribasso, come quella americana. Eppure le due banche centrali (Fed e Bce) decidono di perseguire politiche monetarie diverse? Come mai questa differenza?

Il differente comportamento delle due banche centrali può essere spiegato, a mio avviso, con una diversa valutazione della crisi dei mercati finanziari. In altri termini la BCE – che comunque nel corso degli ultimi mesi anche se non ha toccato i tassi tuttavia ha immesso nel sistema interbancario una montagna di liquidità – ha voluto ad ogni costo evitare, sin dai primi segni della crisi legata ai mutui subprime in America, di essere guidata dal panico, nella consapevolezza che la crisi aveva una origine americana ed un effetto molto meno devastante in Europa. Ad un livello più generale, poi, è noto che nella definizione degli obiettivi della Bce, il mantenimento della stabilità dei prezzi nell’area euro è l’obiettivo assolutamente principale. Negli ultimi mesi, la banca centrale europea si è trovata a dover percorrere un sentiero molto difficoltoso: da un lato, per tener fede al proprio mandato ha dovuto contrastare l’inflazione; dall’altro ha cercato di non danneggiare troppo le prospettive di una crescita sempre più incerta ed aleatoria, evitando al contempo di incoraggiare in modo ulteriore un rafforzamento dell’euro che comunque è in corso da molto tempo.
La Fed invece nelle sue decisioni persegue la promozione efficiente di tre obiettivi: la massima occupazione, la stabilità dei prezzi e la moderazione dei tassi di interesse a lungo termine. E queste differenze tra gli obiettivi delle due banche centrali, anche se meno sostanziali di quanto potrebbe apparire a prima vista, possono condurre quindi, come si è visto, anche a scelte tra loro diversificate: da parte della Fed una politica espansiva per far fronte alla crisi dei mercati a costo di accelerare l’inflazione; da parte della Bce una politica più prudente, sostanzialmente restrittiva sui tassi di interesse per riportare ordine sui mercati. Bisogna poi anche considerare che le variazioni dei tassi tendono ad avere un effetto relativamente lento sulla crescita economica e sull’occupazione, ma questo effetto è significativamente più ritardato sull’inflazione. Quindi ad esempio un abbassamento dei tassi conduce prima ad una maggiore crescita e solo in un secondo tempo anche ad una maggiore inflazione. In presenza di un timore diffuso di una imminente recessione, si possono allora capire anche le recenti decisioni espansive della Fed.



È davvero importante, come chiede la Bce, mantenere l’inflazione sotto forte controllo? È una politica che paga in un momento in cui i prezzi dei beni alimentari ed energetici hanno raggiunto livelli elevati?

L’inflazione è certamente un pericolo da non sottovalutare, e in questo senso vanno prese con grande attenzione e cautela sia le parole di Trichet in occasione della sua audizione alla Commissione economico finanziaria del Parlamento europeo a Bruxelles sia il rapporto trimestrale sulla zona euro della Commissione europea, entrambi concordi in una revisione al rialzo dell’inflazione. Bisogna tenere conto poi che i salari europei sono notoriamente più rigidi di quelli americani, e quindi l’aumento dell’inflazione è molto più dannoso in Europa dove può facilmente condurre ad una sostanziale riduzione dei redditi reali e quindi ad una sensibile contrazione della domanda.



In Italia si segnala un calo del potere di acquisto dei salari, e tra le varie proposte politiche e sindacali c’è chi vorrebbe legare gli aumenti salari all’inflazione reale. Una manovra che Trichet sconsiglia di adottare. Perché? Quale può essere allora il modo per accrescere le buste paga dei lavoratori?

Il timore di Trichet è che i salari nominali vengano legati ai prezzi al consumo, perché in tal modo si rischierebbe di pregiudicare la stabilità dei prezzi nel medio periodo e in definitiva si danneggerebbe il potere d’acquisto dei paesi dell’area euro. In Italia esiste certamente un problema legato al livello troppo basso dei salari, ma nel nostro paese la vera questione è quella della nostra bassa produttività, che rende problematica la competitività di prezzo delle nostre esportazioni e ci costringe a cercare sempre nuovi mercati di sbocco dei nostri prodotti. L’obiettivo deve essere allora quello di fare una seria riforma del nostro sistema contrattuale, ovvero del sistema della determinazione dei salari, in modo da incentivare gli incrementi di produttività. In questo senso la strada maestra è quella di legare gli aumenti dei salari alla crescita della produttività. Ma le resistenze, specialmente a livello sindacale, mi sembra siano ancora forti, anche se qualche segnale incoraggiante comincia a vedersi anche da noi.