Nel gennaio scorso l’Istat ha pubblicato i dati relativi a Distribuzione del reddito e condizioni di vita in Italia (2005-2006).
Il report dell’Istat induce a riflettere su diverse questioni importanti per il nostro paese. I redditi netti sono relativamente bassi, lo squilibrio tra Nord e Centro del Paese da un lato, Sud ed Isole dall’altro persiste, la distribuzione del reddito evolve lentamente.
In questa nota vorrei ragionare su cosa ci dice l’indagine Istat a riguardo della distribuzione dei redditi, netti da imposte, in Italia. Volendo condensare al massimo l’indagine Istat, possiamo dire che l’indice di Gini per il nostro paese è pari a 0.32, e che questo dato non è significativamente cambiato rispetto all’indagine per il 2004.
Per capire il significato di queste informazioni, dobbiamo comprendere come funziona l’indice di Gini. Questo indice statistico è costruito in modo da essere pari all’unità in una situazione limite in cui tutti i membri di una popolazione abbiano redditi identici. All’opposto, l’indice varrebbe zero se il reddito nazionale fosse concentrato nelle mani di un solo percettore. In pratica, si ritiene normalmente che un indice di Gini pari a 0.5 fotografi una società altamente ineguale. Nei paesi scandinavi, forse i più egalitari al mondo, i valori sono vicini a 0.25. Come ulteriore termine di paragone, si noti che una delle distribuzioni più diseguali della storia recente è quella registrata in Inghilterra nel 1870. In quel contesto, di (seconda) rivoluzione industriale, così squilibrato e caratterizzato da forti tensioni sociali, l’indice di Gini era circa pari a 0.62 (che è circa lo stesso valore che oggi caratterizza la Sierra Leone).
Negli Stati Uniti l’indice di Gini è circa 0.47, un valore quasi identico a quello cinese. La distribuzione del reddito italiana è quindi molto più equilibrata di quella americana. Negli Usa la disuguaglianza aumenta dalla fine degli anni settanta: il dato di partenza era 0.41, anche in Cina il Gini è salito a 0.47 da un valore di circa 0.41 a metà degli anni novanta.
L’aumento della disuguaglianza all’interno dei vari sistemi economici è un fenomeno generalizzato. Anche se non si può concludere che la disuguaglianza a livello mondiale stia aumentando, perché si sta riducendo la disuguaglianza tra i paesi, è interessante e importante chiedersi il perché del fenomeno in atto.
Un recente studio del Fondo Monetario Internazionale sostiene che due siano le cause, e che entrambe contribuiscano – per quanto riguarda i paesi sviluppati – in misura quasi pari. Secondo il giudizio del Fondo, condiviso da molti esperti, l’aumento della disuguaglianza è dovuto alla globalizzazione, e a cambiamenti tecnologici.
Non sorprende nessuno che si suggerisca che la globalizzazione influenzi la disuguaglianza. Ad esempio, gli Stati Uniti sono, rispetto ai paesi emergenti, una nazione ricca sia di capitale fisico, sia di capitale umano. Al contrario, negli Usa è relativamente meno abbondante il lavoro non specializzato. In assenza di commercio internazionale, i lavoratori americani meno specializzati – essendo relativamente scarsi – venivano retribuiti piuttosto bene. Dopo l’apertura al commercio, l’abbondanza di lavoratori non specializzati che caratterizza l’economia globale, tenendo basso il loro salario, si riflette anche sulle retribuzioni negli Stati Uniti. Negli States quindi guadagnano coloro che hanno avuto la bravura (e la fortuna) di ottenere una buona educazione, e chi è proprietario di beni capitali, anch’essi divenuti relativamente scarsi. È una storia semplice e chiara. Tuttavia un minimo di riflessione sui fatti ci fa capire che la globalizzazione non può spiegare tutto. Proprio negli Stati Uniti, l’apertura al commercio internazionale negli anni settanta ed ottanta è aumentata in modo tutt’altro che spettacolare: è difficile che questo modesto aumento abbia causato da solo un forte aumento della disuguaglianza. Un altro esempio: negli anni novanta Ucraina e Polonia si sono aperte al commercio – ed agli investimenti esteri. La disuguaglianza è aumentata in Polonia, ma si è ridotta in Ucraina.
L’aumento della disuguaglianza è causato anche da cambiamenti nella tecnologia. Metodi produttivi sempre più sofisticati favoriscono in maniera sempre più evidente quelli che sono in grado di utilizzarli; inoltre mezzi di comunicazione più avanzati rendono agevole domandare servizi specializzati, aumentando il valore di mercato di chi è in grado di offrirli. Già sappiamo che, per il Fondo Monetario, la tecnologia spiega quasi la metà dell’aumento della disuguaglianza nei paesi industrializzati, è invece sostanzialmente l’unica causa del fenomeno nei paesi emergenti. Qui, infatti, la globalizzazione favorisce l’eguaglianza, aumentando i salari dei lavoratori non specializzati. Il cambiamento tecnologico invece avvantaggia le persone – relativamente poche, in questi contesti! – che riescono a sfruttarlo al meglio. Tornando al nostro paese, ciò che colpisce quindi non è che sia aumentata la disuguaglianza, ma che lo sia così poco. Cercare di capire il perché è importante.
Partiamo dal fatto che l’Italia produce ed esporta molto in settori tradizionali come calzature, trasformazione di generi alimentari, abbigliamento (moda), mobili, piastrelle. È una nostra caratteristica costante nel tempo, ed ha costituito un problema non da poco negli ultimi anni, durante i quali la concorrenza cinese si è fatta sentire in questi settori a specializzazione relativamente bassa. Anche il terziario italiano in misura rilevante è “tradizionale” (pubblica amministrazione, turismo, servizi alla persona, ecc). Questa struttura produttiva sembra aver fatto sì che i fattori tecnologici che hanno investito il mondo occidentale nell’ultimo quarto di secolo abbiano influenzato solo parzialmente il nostro paese: fino al 2005 siamo rimasti “uguali” perché abbiamo usato, in buona misura, tecnologie “vecchie”. Ciò è confermato anche dalla struttura delle nostre esportazioni: in quel periodo la percentuale di beni esportati “ad alto contenuto tecnologico” oscillava tra l’8 ed il 9%, percentuale pari a circa la metà di quella tedesca, a circa un terzo di quella francese.
Negli ultimi due o tre anni il sistema produttivo sta però lanciando segnali di cambiamento. Due studi recenti, del Servizio Studi della Banca d’Italia e della Fondazione “Rodolfo de Benedetti”, suggeriscono che le piccole e (soprattutto) medie imprese italiane si stiano spostando verso settori più tecnologicamente avanzati. Emerge inoltre il fatto che parte delle imprese che non cambiano prodotto, ne migliorano la qualità, ed adottano nuove tecnologie e nuove strutture organizzative. Come risultato, si nota che un’impresa su cinque collabora con partner esteri, o delocalizza attività di produzione o di commercializzazione. Tale percentuale è quasi raddoppiata rispetto all’inizio del decennio. Ad esempio, nel tessile, a seguito della durissima crisi “cinese” del 2003-2005 le imprese meno efficienti hanno chiuso, ma altre si sono spostate verso filati più pregiati, tanto che le esportazioni italiane nel settore hanno ripreso ad aumentare (a partire dalla seconda metà del 2006).
Possiamo proseguire lungo questa strada? Per farlo, dovremo “rassegnarci” a investire di più nel nostro futuro. Soprattutto, l’Italia è un paese che finora ha investito poco nella sua risorsa più preziosa, il proprio capitale umano. Dobbiamo invertire tale tendenza, investendo di più e meglio nella scuola e nell’università. Tuttavia migliorare l’offerta di lavoro qualificato non basta. Bisogna sostenere innovazione e internazionalizzazione delle Pmi.
Infatti, va evitato il rischio di un circolo vizioso per cui la scarsità di manodopera qualificata è bilanciata da una scarsa domanda, figlia di una forte presenza nei settori tradizionali (fatto che a sua volta scoraggia l’investimento in capitale umano, perché il mercato per lavoratori qualificati è piccolo…). È necessario anche favorire lo spostamento delle risorse dai settori in declino verso quelli in espansione.
L’investimento in capitale umano è fondamentale. Una migliore istruzione ci aiuterebbe non solo a crescere, ma a crescere senza diventare diseguali: capitale umano (e flessibilità) consentono di “assorbire” lo shock tecnologico, volgendolo anzi a proprio vantaggio. Un capitale umano “diffuso” consente quindi ovviamente di diffondere i benefici delle nuove tecnologie.
A questo proposito, vorrei ricordare uno degli elementi più sconcertanti dell’indagine Istat. Mentre il reddito medio delle famiglie con figli è superiore a quello delle famiglie senza figli, il reddito medio delle famiglie con figli si riduce all’aumentare del numero dei figli. Ciò è vero sia al Nord, sia al Centro sia al Sud, ed è vero sia quando si considerano tutte le famiglie italiane, sia quando si concentra l’attenzione solo su famiglie con figli minori. Il basso livello dei servizi alla famiglia sembra quindi ridurre l’offerta di lavoro – e quindi il reddito – delle famiglie con più figli. In due parole: chi più dovrebbe investire in istruzione ha troppo poche risorse. Forse una diversa politica della famiglia aiuterebbe l’investimento in capitale umano, e la flessibilità, così importanti per il nostro futuro.



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