La Banca centrale europea non molla la presa dell’obiettivo primo per il quale è nata, e alla cui difesa è vincolata dallo Statuto e dal Trattato europeo: la lotta all’inflazione.
Di conseguenza, ha spiegato stamane il presidente Trichet, Francoforte non seguirà la Fed sulla via del ribasso dei tassi, perché petrolio, materie prime e generi alimentari spingono verso il 3% annuo l’indice armonizzato dei prezzi al consumo. È noto che la Fed è tenuta invece per Statuto a preservare il massimo impiego delle risorse produttive a ritmi che ordinariamente non producano tensioni inflazionistiche, ma con la priorità di sostenere la congiuntura quando essa minaccia di diventare negativa, perché la recessione con le sue conseguenze viene considerata un male peggiore dell’inflazione nel breve termine.
Se queste sono le basi teoriche, perché la Bce resta sorda al 70% delle forze produttive europee che – ogni sondaggio lo dimostra – in questi mesi di frenata dell’economia reale a seguito di quella americana chiedono che si allenti la sua disciplina sui tassi? Per tre ragioni, che purtroppo ci riguardano assai da vicino come lavoratori, consumatori e imprenditori italiani.



Prima ragione: l’asimmetria dell’Ue, e i diversi effetti del ribasso dei tassi nelle sue diverse parti. Poiché abbiamo realizzato la moneta unica, ma – tranne quelli finanziari – in realtà tutti i mercati sottostanti, delle merci e del lavoro, dei beni e dei servizi, restano in realtà separati e nazionali, ecco che tassi d’interesse omogenei esercitano effetti diversi. Abbassare i tassi da Francoforte può in questa fase, a giudizio di Trichet e dei suoi colleghi, trasmettere segnali fuorvianti ai paesi che nel recente passato più hanno approfittato del credito a buon mercato, e che oggi hanno una struttura banco-finanziaria sotto forte pressione per effetto dello sgonfiamento di bolle soprattutto immobiliari. È, per esempio, il caso della Spagna e dell’Irlanda. Francoforte teme che con tassi bassi si allenti l’operazione-pulizia che gli intermediari finanziari sono costretti e svolgere, per evitare di trovarsi troppo esposti. All’inverso, come imprenditori italiani – siate voi un imprenditore che ha bisogno di un prestito o una famiglia alle prese col mutuo – questa linea di rigore significa che il nostro gap sugli spread pagati al sistema finanziario resterà più elevato di quello praticato in altri paesi europei. Vi segnalo che all’ultima asta straordinaria di liquidità della Bce la scorsa settimana risulta che sei banche italiane abbiano ritirato quasi 20 miliardi di euro: il che significa che banche con problemi di tesoreria ci sono anche in Italia, e sono i loro clienti che ne pagano inevitabilmente il costo, più elevato con tassi che non scendono.



Seconda ragione: la spirale prezzi-salari. Trichet lancia da quasi due anni allarmi su questo fronte, e lo ha fatto anche ieri, invitando i maggiori paesi europei a tenere il freno pigiato rispetto alle richieste di aumenti salariali superiori all’inflazione. Anche in questo caso, come lavoratori dipendenti italiani, è un allarme che ci colpisce in maniera paradossale. Nell’Ue a 15 – il paragone con l’Ue a 27 è meno corretto per i salari, visto che la curva dei costi dei paesi più recentemente entrati da Est resta molto più bassa dei paesi fondatori come l’Italia – siamo al quattordicesimo posto su quindici, in termini di aumento del reddito disponibile del lavoro dipendente da 10 anni a questa parte. I contratti di maggior impatto inflazionistico hanno riguardato grandi comparti dell’impiego francese e tedesco e per altro, in quest’ultimo caso, poiché la contrattazione è nazional-aziendale ma non dell’intero settore, spesso le clausole salariali sono state accompagnate da disponibilità a regimi orari tali da migliorare la produttività.
Se la politica e il sindacato italiano non capiscono che è il momento di cambiare dalle fondamenta il modello contrattuale italiano, con lo Stato che fa un grande passo indietro decontribuendo una percentuale molto significativa del salario se trattato in azienda per la produttività, continueremo a pagare il conto dei contratti più pingui che altrove in Europa vengono offerti ai lavoratori. La spirale di impoverimento del lavoro dipendente italiano è una questione molto seria, e non si risolve con redditi minimi finanziati dalla fiscalità generale.



Terza ragione: l’illusione del decoupling europeo dagli Usa. Da un anno e mezzo, l’Europa nutre l’illusione che la propria crescita reale e l’andamento dei propri mercati finanziari siano in realtà lentamente evolvendo verso l’affrancamento dalla motrice amero-asiatica che nell’ultimo ventennio traina la crescita mondiale. A mio giudizio, si tratta di una pericolosa illusione, ma è forte e tenace nell’euro-élite tecnocratica di Francoforte e Bruxelles. È la variante colta che molti economisti europei hanno elaborato dell’antiamericanismo proprio della vecchia sinistra continentale. Le serie storiche dei mercati finanziari continuano a mostrare che gli asset mobiliari europei ogni giorno derivano i loro andamenti dalle chiusure asiatiche e dalle aperture di Wall Street. Quelle relative all’economia reale, mostrano che una frenata della domanda americana continua ripercuotersi nel breve termine molto seriamente sull’andamento delle economie core europee – la Germania regge meglio degli altri, noi come Italia peggio di tutti. Infine, dal punto di vista valutario, se il deprezzamento del dollaro ci allevia di un po’ la bolletta petrolifera – che continua a essere determinata in dollari, checché ci si illuda dell’euro come valuta di riserva e di regolazione internazionale concorrente – dal punto di vista dell’export per le nostre merci significa diminuzione dei margini.
Per tutte queste ragioni, la linea della Bce resta assai meno favorevole all’Italia che ad altri paesi dell’Unione.