Non è la prima volta che l’Economist si esprime a riguardo del nostro paese con i toni usati nell’ultimo numero. Avendo presente l’autorevolezza della testata, sorge inevitabilmente una seria preoccupazione per l’immagine internazionale dell’Italia. Eppure l’importanza del giudizio di questo singolare “tribunale” non va sopravvalutata: è quanto afferma Simona Beretta, docente di Politiche economiche internazionali all’Università Cattolica di Milano, che invita a riflettere sul fatto che «l’autore degli articoli che l’Economist dedica all’Italia è un corrispondente italiano, residente a Roma». Di conseguenza «non è tanto il mondo che ci guarda, quanto piuttosto noi che guardiamo il nostro ombelico e comunichiamo al mondo il nostro malessere. In fondo la posizione dell’Economist non è che una delle tante presenti in Italia. Se a scrivere fosse un altro, il giudizio dell’Economist cambierebbe, eppure rimarrebbe ugualmente autorevole solo per il fatto che è scritto sull’Economist».
L’analisi dell’Economist sull’Italia è impietosa: dal punto di vista politico ed economico il paese è definito come “seriamente inguaiato”, e ben rappresentato nel suo insieme dalla vicenda dei rifiuti in Campania. Da dove si può ripartire? Siamo veramente condannati a un inesorabile declino?
«Il problema – continua Beretta – è di prospettiva. Se ci aspettiamo che il cambiamento del nostro paese arrivi semplicemente dall’applicazione di meccanismi virtuosi sia in politica che in economia, l’analisi dell’Economist è senza dubbio realistica. È vero che il mercato italiano, per molti aspetti, è bloccato, e che la partecipazione economica incontra molti ostacoli. Ma in questa analisi “perfetta” manca un pezzo. Il cambiamento non nasce tanto da meccanismi provvidenziali, quanto da persone che si muovono. Di questo, contrariamente alle apparenze, deve rendersi conto spesso e volentieri lo stesso Economist, che più volte ha dovuto ad esempio riconoscere la vitalità dell’imprenditoria italiana».
Parrebbe dunque che la speranza dell’Italia non si trovi in astratte “ricette” o nel ricopiare “modelli” provenienti dall’estero. «Ogni bravo economista sa che non esistono istituzioni Full proof: che la salvezza non viene dalle “ricette” astrattamente intese è un risultato ormai acquisito. Tali ricette vengono solitamente cercate nell’analisi della struttura degli incentivi e degli interessi, ma queste variabili non esauriscono il problema! Ci sono anche altre motivazioni che muovono la persona nei vari ambiti, c’è un “di più” che nessuna teoria economica riesce ad esaurire. Una ricetta realistica deve avere il coraggio di guardare questo di più, che oltretutto può dare vita a nuove strutture e a istituzioni migliori».
Un esempio in negativo? «Prendiamo la legislazione antitrust della Russia. A detta della maggior parte degli economisti è la migliore legge del mondo, eppure non dà risultati. Perché?».
Un esempio ancora più eclatante, stavolta in positivo, è proprio il nostro paese. «Perché nell’Italia degli anni ’50, uscita distrutta dalla guerra, priva di strutture e di mezzi adeguati, è tato possibile il miracolo della ricostruzione? Per via di un “di più”, cioè del riconoscimento unanime del bene comune. La Costituzione italiana, pur piena di difetti, riflette un comune sentire del popolo. Oggi in Italia occorre ricostruire il senso di un bene in comune. Prima ancora occorre riconoscere l’esistenza di questo bene».
Si può dire che qui sta il segreto di un “modello italiano”? «Direi che questa non è solo la via italiana, ma l’unica strada realistica che si può seguire, in Italia come altrove: far vedere che c’è un bene in comune, senza cadere nell’illusione – tipica di certi slogan elettorali – che la politica da sola può cambiare il paese».



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