La “vicenda Alitalia”, con l’importante aggiunta del “caso Malpensa”, è un fatto quanto mai emblematico dei problemi del nostro paese, della sua incapacità ad adeguarsi in tempi ragionevoli ai cambiamenti del contesto internazionale ma anche del persistere di una logica fondamentalmente statalista.
L’enorme distruzione di ricchezza prodotta in questi ultimi decenni dall’Alitalia ha una causa precisa: un patto scellerato e collusivo tra politica e sindacato. L’azienda non è mai stata considerata in quanto tale, e cioè un’organizzazione stabile di persone e mezzi con lo scopo di produrre un servizio di trasporto aereo avente un valore maggiore di quello dei fattori impiegati, ma è stata utilizzata come strumento di potere, per distribuire benefici e posti di lavoro o per dotarsi di una base sindacale forte, perché protetta e perché operante in un settore particolarmente sensibile.
È una situazione che spesso si ritrova nelle aziende di trasporto pubblico: l’elevato costo del lavoro non è dovuto solo a retribuzioni più alte della media, ma, soprattutto, ad un inefficiente utilizzo della forza lavoro. Questa inefficienza altro non è che l’effetto del patto scellerato: ogni volta che si trova il modo di fare con due addetti quello che prima si faceva con uno solo, politica e sindacato sono concordi nel salutare e promuovere la nuova soluzione organizzativa, per gli ovvi motivi che tutti possiamo ben comprendere. È tragico, quindi, che gli attori del patto scellerato, la politica e i sindacati, siano gli unici attori italiani a dominare la scena di questa confusa trattativa, sommergendo con il clamore delle loro dichiarazioni altre posizioni, ben più ragionate, che pure esistono.
La sfida della liberalizzazione – Il settore del trasporto aereo si è sviluppato negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale in un contesto fortemente caratterizzato dalla presenza degli stati nazionali, per le sue evidenti implicazioni militari. L’attività di volo civile era vista come un’importante riserva di personale e mezzi per l’aeronautica militare, arma che si era rivelata decisiva nel corso della guerra. In questo contesto, ben altre erano le priorità rispetto all’equilibrio tra costi e ricavi: ad esempio il prestigio nazionale, il poter disporre della riserva di un elevato numero di piloti, la possibilità di stipulare accordi bilaterali con altri paesi.
È solo negli anni ’80 negli Usa, e poi nel decennio successivo nell’Ue, che il settore viene progressivamente liberalizzato e quindi collocato a pieno titolo tra le attività industriali lasciate alla libera iniziativa economica. È questo cambiamento di contesto che richiede ai vettori aerei di adeguare il loro modello organizzativo, ponendo gli equilibri di bilancio al centro della propria strategia: il patto scellerato tra politica e sindacato ha di fatto bloccato sul nascere questo cambiamento. In Italia, ad oltre dieci anni dalla direttiva europea di liberalizzazione, questo salto culturale non è ancora avvenuto e il dibattito di questi giorni drammaticamente lo conferma: anche nel centro-destra continua il richiamo alla necessità di un “vettore nazionale” e al “ruolo dello Stato”. La sfida della liberalizzazione richiede invece allo Stato di svolgere il ruolo del regolatore (mai esercitato: manchiamo di un piano nazionale degli aeroporti) e alle imprese di confrontarsi, per contendersi i clienti in un mercato libero.
Il caso Malpensa – Il Nord Ovest d’Italia è tra le regioni più sviluppate del mondo, con una produzione di beni e servizi di eccellenza, fortemente inserita nel processo di globalizzazione in atto. Necessita, ovviamente, di collegamenti aerei diretti con le principali città mondiali. Per questo ha sviluppato un aeroporto, Malpensa, in grado di svolgere il ruolo di hub, cioè di aeroporto di interscambio, dove concentrare la domanda per consentire adeguati fattori di riempimento degli aerei e poter mantenere attivi i collegamenti anche con le destinazioni a domanda debole.
La mancanza di una logica di equilibrio tra costi e ricavi ha portato Alitalia a compiere le proprie scelte al di fuori di una corretta logica commerciale: il suo mercato prevalente è al Nord, ma le assunzioni sono state fatte al Centro, proprio in conseguenza della logica seguita, non aziendale ma politica. Alitalia quindi perde a Malpensa non per carenza del mercato ma per effetto di scelte organizzative sbagliate, che il nuovo piano industriale dovrebbe correggere, potendo contare sull’integrazione con un grande operatore quale il gruppo Air France-Klm.
Per questo è scandalosa la posizione del governo, che a fronte di molteplici e rilevanti interessi nazionali si è totalmente sottratto al suo ruolo di programmatore, che gli richiederebbe di assicurare adeguata accessibilità a tutte le aree del paese, per limitarsi, alla stregua di un comune investitore, nella dismissione di una partecipazione che non è stato in grado di far fruttare.