Cosa sono? – I fondi sovrani sono fondi di investimento di proprietà governativa che investono in attività di altri paesi. Essi non costituiscono un fenomeno recente, dato che esistono sin dalla fine della seconda guerra mondiale. Attualmente più di 20 paesi hanno fondi di investimento sovrani, tra quelli più noti vi sono i fondi di Norvegia, Russia, Kuwait, Arabia Saudita e Cina.



A cosa servono? – I fondi sovrani hanno sostanzialmente due obiettivi: a) i paesi ricchi di risorse naturali di proprietà pubblica si trovano a disporre di ingenti quantità di risparmio che devono essere investite da una parte per isolare il bilancio statale dalle fluttuazioni dei prezzi delle materie prime, e dall’altra per poter assicurare una redistribuzione tra le generazioni dei proventi derivanti dall’uso delle risorse naturali, destinati prima o poi ad esaurirsi. La logica di diversificazione del rischio richiede che buona parte di questi risparmi siano investiti in attività estere. b) i paesi che accumulano riserve valutarie desiderano investire le riserve in eccesso rispetto a quanto richiesto a fini precauzionali (shock inattesi) o per la stabilizzazione del cambio, in attività che possano garantire un maggior rendimento rispetto a quello offerto dai titoli più liquidi, quali i titoli del tesoro USA.
Per fare alcuni esempi: al primo gruppo appartengono molti fondi sovrani di paesi esportatori di petrolio che hanno beneficiato negli ultimi anni del cospicuo incremento del prezzo del greggio. Uno degli esempi più noti è costituito dal Government Pension Fund del governo norvegese, creato nel 1990 con l’obiettivo di rendere partecipi le generazioni future dei proventi della vendita del petrolio. Il fondo è attualmente il maggior fondo pensione in Europa e può investire sino al 50% del proprio capitale in azioni. Vi sono ovviamente fondi sovrani legati a settori non petroliferi come ad esempio il fondo del Cile (rame) e quello del Botswana (diamanti).
Al secondo gruppo appartengono i fondi sovrani legati alla gestione delle riserve. Il caso maggiormente citato è il fondo sovrano cinese. La Cina ha perseguito una politica di relativa stabilità della propria valuta nei confronti di quella statunitense (formalmente le autorità cinesi hanno adottato un tasso di cambio fisso nei confronti del dollaro sino al Luglio 2005, per poi passare ad un sistema di bande di fluttuazioni nei confronti di un paniere di valute) pur mostrando tassi di crescita del prodotto e delle esportazioni nette sensibilmente superiori a quelli USA. Per evitare l’eccessivo apprezzamento della propria valuta, la Cina ha accumulato ingenti riserve in dollari ed ha cercato di diversificare parte dell’eccesso di riserve investendo in attività diverse dai titoli di stato USA anche al fine di ottenere rendimenti superiori rispetto agli scarsi rendimenti obbligazionari.



In che settori investono? – Nei più vari, coerentemente con l’obiettivo di perseguire un congruo rendimento economico. Recentemente ha fatto notizia l’acquisizione di pacchetti azionari di importanti banche (Citigroup, Merril Lynch, …), ma in passato sono stati realizzati importanti investimenti nelle telecomunicazioni, nel settore aerospaziale, perfino nei casinò… In definitiva i fondi sovrani si sono comportati come tanti altri operatori del mercato internazionale dei capitali.

Quanto sono grandi? – I fondi sovrani gestiscono una notevole quantità di risorse: le stime più recenti pongono il totale delle risorse gestite prossimo a 3000 miliardi di dollari. Anche se la cifra può sembrare elevata, occorre considerare che essa è di poco superiore a quella gestita dagli hedge funds e tra un quindicesimo (secondo il FMI) e un ventesimo (secondo Morgan Stanley) rispetto a quella degli investitori istituzionali (banche, società di assicurazioni, fondi pensione ecc.). Dunque i fondi sovrani sono grandi attori nel mercato internazionale dei capitali anche se non più grandi di altri. Anche se in quest’ottica la loro dimensione non risulta eccessiva, adottando una prospettiva di medio periodo lo scenario muta: le attuali stime del Fondo Monetario Internazionale sottolineano che l’accumulazione di risorse da parte dei fondi sovrani può procedere al tasso di 800-900 miliardi annui portando il totale delle risorse a 12000 miliardi di dollari entro il 2012, un valore paragonabile al Pil USA attuale. Va tenuto in considerazione che anche il patrimonio gestito da parte degli altri investitori è destinato a crescere e che quindi la quota dei fondi sovrani rispetto al totale delle attività finanziarie si assesterà attorno al 3%.



Quali problemi pongono? – Premesso che i fondi sovrani hanno scopi condivisibili (diversificazione dei rendimenti, redistribuzione intergenerazionale delle risorse e gestione remunerativa delle riserve); premesso che essi forniscono spesso risorse necessarie per un efficiente funzionamento del sistema finanziario internazionale, rimane il fatto che il loro operato è spesso soggetto a critiche ed interrogativi. Tre questioni meritano di essere affrontate: il problema della trasparenza, il problema dell’uso (e del possibile abuso) del potere politico, gli effetti asimmetrici sui mercati delle commodities.

a) un problema di trasparenza
Il primo vero problema è la scarsa trasparenza dei fondi sovrani. Con poche eccezioni, la maggior parte di essi non pubblica informazioni sulla reale consistenza del proprio portafoglio, soprattutto sulla cosiddetta “asset allocation” e sul loro grado di esposizione. La scarsa trasparenza è inoltre relativa al reale obiettivo di questi fondi: essi perseguono semplicemente logiche economiche o anche interessi di natura maggiormente politica? Essendo scarse le informazioni su questi aspetti, è naturale che possano nascere sospetti e supposizioni di varia natura.
Per chiarire le questioni in gioco è utile considerare due casi concreti e opposti. Il fondo pensione Norvegese citato in precedenza è probabilmente l’esempio di maggior trasparenza tra i fondi sovrani attuali. Ha uno specifico obiettivo dichiarato: la redistribuzione della ricchezza petrolifera verso le generazioni future. Inoltre ha anche forti vincoli nel raggiungimento di tali obiettivi: il governo norvegese ha stabilito un benchmark di allocazione del portafoglio (40% azioni 60% obbligazioni) diviso tra valute e aree regionali con cui i gestori del fondo pensione devono confrontarsi. I risultati della gestione e i confronti con il benchmark sono pubblicamente disponibili sul sito web della banca centrale norvegese. Inoltre è stato costituito un comitato etico che valuta i singoli investimenti effettuati e può decidere l’eliminazione di alcuni investimenti: ad esempio sono stati esclusi investimenti in società (tra cui la nostra Finmeccanica) che producono armi così come l’investimento in società che non rispettano determinati standard ambientali. Infine, al fine di non turbare il mercato, il fondo norvegese si impegna a non possedere più del 3% delle azioni di una singola società così da non dover esercitare diritti di controllo rilevanti.
Per contro il China Investment Corporation, fondo sovrano cinese costituito nel 2007 con lo scopo di gestire le riserve valutarie, sembra rispondere a logiche abbastanza diverse. Il fondo ha un ampio mandato e tra i vari obiettivi è specificato il supporto all’espansione verso l’estero delle imprese statali cinesi. Il consiglio di amministrazione è composto prevalentemente da burocrati e membri governativi, inoltre il consiglio risponde direttamente al governo cinese. Il setting istituzionale del fondo sembra quindi suggerire una forte ingerenza politica nelle scelte di investimento, anche se non esiste prova al riguardo (c’è chi interpreta la burocratizzazione del consiglio di amministrazione come una scelta per dare completa discrezionalità e libertà di azione al management). Infine non esiste alcuna informazione sulla composizione del portafoglio del CIC né esso è tenuto ad osservare norme di comportamento che siano lontanamente comparabili a quelle del fondo sovrano norvegese. La scarsa trasparenza negli obiettivi dei fondi sovrani e nelle norme che li disciplinano è la fonte principale di preoccupazione da parte degli osservatori economici. Quando una grossa partecipazione in una impresa di rilevante interesse nazionale è effettuata da un fondo di investimento “di mercato”, è difficile dubitare che l’obiettivo del fondo non sia la resa economica dell’investimento. Se invece l’investimento viene effettuato da un fondo sovrano, la scarsa trasparenza degli obiettivi dello stesso possono far temere che l’obiettivo reale sia politico più che economico. In fondo, se l’impresa in questione ha realmente una valenza nazionale, l’acquisto si configurerebbe come una perdita di sovranità di uno Stato di un asset strategico nei confronti di un altro Stato. È importante sottolineare che la scarsa trasparenza dei fondi sovrani non solo non tutela i paesi che ricevono gli investimenti da tali fondi, ma anche i cittadini dei paesi che posseggono i fondi stessi. In ultima analisi il CIC sta investendo parte del risparmio nazionale cinese in titoli denominati in valuta estera. Poiché è attesa nel medio periodo una consistente rivalutazione della valuta cinese nei confronti delle principali valute internazionali ed in particolare del dollaro, vi sarà di conseguenza una perdita in conto capitale degli investimenti effettuati dal CIC. Ad esempio uno degli investimenti maggiormente controversi del CIC effettuato nel 2007 è stato l’acquisto di azioni del noto fondo di investimento USA Blackstone per 3 miliardi di dollari. Dalla data dell’ingresso del fondo sovrano cinese il valore di mercato del fondo Blackstone è diminuito di circa il 30% con conseguenti perdite ingenti da parte del fondo CIC. Queste perdite sono attualmente nascoste alla popolazione cinese.

b) Fondi sovrani e potere politico
L’esempio della Cina è uno fra tanti, ma tutti i fondi sovrani hanno in comune il fatto che il proprietario ultimo è uno Stato che non sempre e non necessariamente opera secondo logiche di mercato. Anche se ci fosse piena trasparenza potrebbe rimanere una fonte di conflitto: il modus operandi di un fondo sovrano può interferire, anche pesantemente, con il sistema economico e politico ricettore dei flussi finanziari. In realtà potere economico e potere politico sono sempre difficili da disgiungere: il potere politico può essere usato al fine di accumulare ricchezze e il potere economico può permettere di “comprare” la politica. Sotto questo profilo è quindi opportuno indagare sulla logica di potere complessiva che emerge dal comportamento concreto di un certo fondo sovrano. In taluni casi sarebbe ingenuo non riconoscere un preciso disegno di utilizzo strategico del potere economico e politico che si condensano nell’operato dei fondi sovrani. Da questo punto di vista la trasparenza è necessaria ma da sola non basta a evitare possibili abusi di potere.
È possibile e come difendersi da tali abusi di potere? È del tutto legittimo che un paese si doti di un sistema di regole che difenda gli interessi “strategici” nazionali (banche, utilities, settore della difesa…) limitando le possibilità di partecipazione al capitale di determinate tipologie settoriali. Le politiche settoriali dei paesi dove i fondi sovrani investono sono infatti decise dal paese ricevente, che in questo conserva tutta la sua sovranità formale. È chiaro che la sovranità formale è cosa diversa dalla sovranità sostanziale. Se un paese non è in grado di finanziare un settore strategico nazionale, “deve” far buon viso a cattivo gioco e accettare – magari mugugnando – le risorse finanziarie che vengono da fondi sovrani. I più anziani si ricorderanno certamente la vicenda degli investimenti libici nella Fiat (non una impresa pubblica, ma certamente con un ruolo rilevante nella struttura produttiva del paese) e di come siano stati utili pur sgraditi i capitali di un paese allora politicamente problematico.

c) Fondi sovrani alla conquista delle risorse primarie?
Come noto in questa fase ciclica dell’economia mondiale la domanda di prodotti primari e di materie prime ha subito una decisa accelerazione. Per fare un esempio le importazioni cinesi di semi di soya, petrolio e rame sono aumentate di 35 volte negli ultimi 10 anni. Questa crescente domanda di materie prime ha portato alcuni fondi sovrani ad acquisire direttamente attività reali legate alle commodities (miniere, concessioni petrolifere ecc.). Questo crea ovviamente dei problemi: può darsi che un paese ricco di materie prime e povero di tutto il resto veda nella possibilità di vendere le proprie miniere l’unico modo per sopravvivere; ma è evidente che questa scelta, che risponde a logiche di breve-medio periodo, condiziona anche la crescita di lungo periodo. In questi casi è difficile che un paese piccolo e povero abbia la forza e persino la volontà di contrastare il forte potere economico degli investitori sovrani. Per contrastare queste situazioni non bastano né gli auspici né le esortazioni né la denuncia; è necessario prendersi carico della situazione di difficoltà del paese povero di reddito e ricco di risorse naturali, non semplicemente limitare le sue possibilità di cedere le sue risorse.

Vigilare sui fondi sovrani o vigilare sull’economia reale? – Premesso che i problemi di scarsa trasparenza e di possibile abuso di potere sono reali e necessitano la dovuta attenzione, sarebbe illusorio pensare che una ferrea regolamentazione nazionale dei fondi sovrani possa essere risolutiva. Per certi versi, gli attuali investimenti dei fondi sovrani sono un “già visto”. Ma il fatto che non siano una novità non significa che non debbano essere guardati con attenzione, i loro effetti sistemici possono infatti essere molto problematici.
Senza tornare indietro troppo nel tempo, i cosiddetti “petrodollari” che hanno inondato i mercati finanziari degli anni Settanta erano esattamente risparmi sovrani dei paesi del Golfo che stavano cercando una collocazione remunerativa. La crisi petrolifera aveva gonfiato le entrate di questi paesi, che non potevano e/o non volevano utilizzarle per investimenti interni; i surplus petroliferi dovevano quindi essere collocati sul mercato finanziario internazionale di allora (il cosiddetto mercato degli eurodollari) e quindi investiti. La crisi petrolifera aveva tuttavia fortemente ridotto la domanda di finanziamenti da parte delle imprese dei paesi avanzati; i possibili clienti solvibili del mercato finanziario internazionale erano solo i paesi “emergenti” di allora (Messico, Brasile, Nigeria, Filippine, Polonia…), che avevano interesse ad ottenere prestiti anche per finanziare livelli crescenti di investimenti, ma anche di consumo. Una grande massa di risorse da impiegare in poco tempo porta quasi inevitabilmente a scelte infelici. È vero nel piccolo dell’esperienza personale, è vero nel grande della finanza internazionale. Pur di ottenere una remunerazione soddisfacente, i “petrodollari” sono stati prestati ai paesi emergenti mediante contratti a breve termine, che tuttavia dovevano finanziare investimenti di lungo termine. Il risultato, nel giro di qualche anno, è stato il brusco risveglio della grande crisi debitoria del 1982, con la lunga recessione che ne è seguita.
Anche oggi, più che sulla natura “sovrana” dei fondi, conviene concentrarsi su chi sono i riceventi. Se i fondi sovrani stanno investendo in realtà solide, stanno facendo egregiamente i loro affari e lo scenario complessivo presenta almeno un aspetto positivo: ognuna delle parti ha interesse alla prosperità dell’altra parte. Ma se le risorse finanziarie a disposizione sono tante, liquide e alla ricerca di rapida collocazione, possono causare scelte infelici. Se i fondi vengono investiti in realtà di difficoltà (ad esempio, nelle banche invischiate nella crisi dei sub-primes; in imprese decotte…) i prenditori hanno poca scelta: devono accettare le condizioni che vengono dettate dagli investitori. Questo segnala che anche gli investitori hanno poca scelta, e per questo stesso fatto lo scenario sistemico potrebbe diventare più fragile.
Insomma: avere a cuore i problemi di stabilità sistemica significa non tanto prendersela con i fondi sovrani e immaginare limitazioni esogene al loro comportamento (pia illusione!). Significa riconoscere le posizioni di debolezza strutturale (deficit, illiquidità, insolvenza) per quello che sono e agire di conseguenza. Offrire ai fondi sovrani delle occasioni di business realmente interessanti, per la loro redditività e la loro sicurezza, sarebbe la politica migliore. La finanza si salva con l’economia reale. Il viceversa è spesso una illusione.