Ogni volta che esce uno studio (ad esempio l’ultimo dell’Ocse), un rapporto (vedi gli allarmi del Fmi sulla crescita) o una qualche statistica sull’andamento del nostro paese, c’è la corsa a riempire pagine, programmi televisivi e radiofonici di commenti, contro-commenti, osservazioni che non hanno innanzitutto lo scopo di domandarsi cosa si può fare concretamente per migliorare la situazione, ma quello di fornire un’interpretazione dei dati quanto più vicina al preconcetto che, in assenza di una seria riflessione sulla realtà, ciascuno dei commentatori ha. O peggio di riempire di fumo la stanza, forse per nascondere l’arrosto.
Il mio professore di fisica all’università mi insegnava che quando si raccolgono dati per elaborare una statistica che cerca di descrivere un fenomeno, occorre fissare l’attenzione sul fenomeno stesso che si osserva, sul modello che si sceglie per rappresentarlo, e non bisogna fare l’errore di applicare la “legge” che si determina da questa inevitabile “approssimazione” della realtà come se fosse il reale meccanismo regolatore “non-approssimato”, quasi applicandolo come criterio assoluto. Questo può essere fatto, ad esempio, dimenticando – nella operazione di proiezione dei dati nel futuro – le condizioni di partenza, quelle di contorno, ed eventuali fattori che potrebbero intervenire a mutare la situazione delle variabili in gioco.
Questo errore ha portato a dire ad un giornalista inglese, sulla base dei dati Ocse, che nel 2030 la Romania avrebbe superato il nostro paese nella classifica della produttività. Il piccolo particolare è che, seguendo il suo ragionamento, nel 2050 la Romania avrebbe superato anche il Regno Unito. E nel mezzo? Il nulla? No, solo che partendo da certe assunzioni si possono verificare, per un problema dato, alcune implicazioni; partendo da altri punti certe altre. Il tutto senza contraddire il modello.
Di cosa ci si dimentica quando si parla dei dati in questa maniera? Che essi sono un’approssimazione della realtà a partire da condizioni di oggi, considerate immutabili, proiettando sulla base di assunzioni più o meno motivate nel futuro quello che si ritiene corretto.
Ciò non è necessariamente sbagliato, ma sicuramente non è sufficiente per interpretare correttamente la realtà; soprattutto non è la cosa più rilevante. Difatti ciò che oggi è in difetto in (quasi) tutta la carovana dei commentatori economico-politico-statistici-etc. è un approccio esclusivamente diagnostico dei fenomeni, che finisce per essere considerato un valore in sè.
Il valore vero, a mio avviso, sarebbe invece – fatta la diagnosi – quello di individuare la terapia. Ma di commentatori e ricercatori capaci (o interessati) alla diagnosi come parte (e non come tutto) del processo di conoscenza della realtà in ordine all’individuazione delle terapie possibili per risollevarci di fronte alle situazioni di stallo, ne vedo pochi in giro. Men che meno i politici.
Non occorre essere laureati a Harvard per avvertire da qualche anno la stagnazione della nostra economia e la diminuzione della produttività del sistema economico. Ma in questi ultimi due anni cosi si è fatto? L’aumento della pressione fiscale, una stretta sulle assunzioni e (da non credere!) addirittura sulle dimissioni volontarie dei lavoratori, che devono adesso firmare davanti all’ufficio del lavoro provinciale per andarsene. Per non parlare di altre “piccole” cose come l’aumento delle quote di indeducibilità degli interessi passivi, l’incremento dei costi indeducibili che penalizzano il nostro sistema imprenditoriale. Questo sul versante delle imprese.
Di fronte a ciò è più “politically correct” citare l’Ocse, il Fmi, l’inflazione, la Bce, il Pil, il debito pubblico da parte sia dei “destri” che dei “sinistri”.
Io non credo che ci sia un progetto di smantellamento del sistema imprenditoriale italiano; di certo la cortina fumogena che si alza tutte le volte che si chiedono cose piccole e concrete è la seguente: “I problemi dell’Italia sono le pensioni, la sanità, il debito pubblico, il pubblico impiego…” che mi ricordano moltissimo il latinorum di manzoniana memoria. La politica deve tornare a parlare un linguaggio comprensibile e a spiegare problemi concreti. Solo cosi recupererà credibilità.
Credo però che se non ci sbrighiamo a partire dalle piccole cose concrete, anche nello studio dei dati macro-economici o nella loro interpretazione finiremo come altri personaggi famosi dei Promessi sposi: i capponi di Renzo. Con l’aggravante di beccarci reciprocamente insultandoci in latino. Cosi ci capiranno davvero in pochi.
Il mito dell’”Ultimo Rapporto”, ovvero quando i modelli dimenticano i fatti
(Foto: Imagoeconomica)