Finalmente dovremmo essere giunti alle fasi finali di questo lunghissimo, estenuante accanimento terapeutico nei confronti di un malato terminale che da troppo tempo meriterebbe più una gloriosa fine che il dover sopportare ulteriori assalti di nuove orde barbariche attaccate alle sue ormai rinsecchite ed esauste mammelle. Innumerevoli capezzoli, che per anni ed anni hanno ipernutrito la peggior specie di operai, impiegati e dirigenti nullafacenti, improduttivi e remunerati non dal mercato né dal merito, ma dal solito ignaro contribuente attraverso copiose ondate di denaro pubblico elargito dall’azionista di maggioranza.
Naturalmente, il malato in questione è Alitalia, e dispiace il dover citare i “soliti noti” seppur vi siano anche migliaia di onesti lavoratori e lavoratrici che per anni hanno mandato letteralmente avanti la compagnia aerea tricolore molto più dei vari Amministratori Delegati o Presidenti. Ma si sa, sono sempre le mele marce a mandare alla malora tutto il cesto. Oggi la notizia della ritirata francese è da prima pagina, e tutti fanno a gara nell’esprimere il proprio commento. Ma si ha realmente un quadro completo della situazione? In un’epoca come quella attuale, dove si giudica la vita di un uomo per soli 100 giorni trascorsi nella “casa” del GF televisivo, è normale che vi sia la propensione a guardare solo un paio di passi all’indietro e nulla più.
Invece le cose, normalmente, non cascano dal cielo ma sono frutto di disastri pluriennali passati sotto un silenzio che evidentemente faceva comodo a più d’uno. Mi sono preso la briga di fare una ricerca, e vorrei condividerla con i lettori del nostro quotidiano online, in modo che qualcun altro possa farsi un’idea più chiara del perché se Alitalia portasse i libri in tribunale sarebbe la più naturale, saggia ed auspicabile delle soluzioni.
La genesi di questa odissea si può far risalire al 1997, grazie alla scossa che diedero al mercato aereo cinque compagnie aeree di primissimo piano: il 14 maggio di quell’anno Thai, United, Lufthansa e Air Canada si associarono in “Star Alliance” creando un colosso intercontinentale nel settore del trasporto aereo passeggeri. Da quel giorno ogni compagnia aerea di un certo livello cercò di vagliare alleanze, joint-venture, aggregazioni che le avrebbero potute tenere adeguatamente nel mercato. Infatti già a fine 1997 si ventilava un’alleanza fra la nostra Alitalia e l’olandese KLM. La prima concreta risposta a “Star Alliance” non tardò a venire: il 21 Settembre 1998 nasceva “OneWorld”, alleanza strategica che raggruppava American Airlines, British Airways, Canadian Airlines (poi fusa con Air Canada), Cathay Pacific e l’australiana Qantas. A questo punto, chi si trovò fuori dai due mega-blocchi appena nati cominciò a temere il peggio per il proprio futuro. Alitalia e KLM decisero di stringere il cerchio.
Non poche erano le diffidenze dei dirigenti olandesi, visto che un rapporto interno all’Alitalia, frutto di interviste incrociate con i dirigenti delle due promesse spose sugli “stili culturali”, condotto nel giugno 1999, portò a questa definizione del metodo di lavoro olandese: “Decentramento, pianificazione, approccio metodico, rigidità, arroganza ed aggressività, propensione alla partnership, uso corrente della lingua inglese”. Purtroppo però i nostri futuri possibili partner definivano così i dirigenti della Magliana: “forte accentramento, prioritaria attenzione alla relazione, uso della lingua inglese non diffuso/adeguato, caotici, non strutturati”. Come se non bastasse, il management KLM accusò anche i nostri dirigenti di “godersi troppo la vita e fare uso eccessivo del telefono cellulare durante le riunioni”.
Nonostante tutto, il matrimonio andò in porto. Le ragioni sono facilmente intuibili: la necessità di competere con i grandi gruppi appena nati e una buona integrazione fra le rispettive potenzialità (Alitalia forte nel mercato interno ma con flotta scadente nel lungo raggio, KLM inesistente nel mercato domestico ma con l’hub di Amsterdam Schiphol perfettamente sfruttabile per voli intercontinentali grazie alle ottime capacità commerciali e le tariffe assolutamente competitive). Poi c’era il ghiotto boccone Malpensa.
Gli olandesi versarono ad Alitalia 100 milioni di euro come contributo anticipato per i costi degli investimenti a Malpensa. KLM piazzò subito a Malpensa alcuni suoi aerei sia per il cargo che per i passeggeri, e Leo Van Wijk (presidente e AD di KLM) disse senza remore che l’aeroporto di Malpensa sarebbe diventato il più importante hub del Sud Europa. Il nuovo Terminal 1 era stato da poco inaugurato (1998) e KLM sembrava il perfetto partner per sviluppare adeguatamente la nuova e modernissima struttura, traghettandola verso un terzo millennio roseo di prospettive. Per tutte queste ragioni, il primo novembre 1999 decollarono le due “full joint venture” operative, una per il trasporto passeggeri, l’altra per le merci. Agli olandesi vennero affidati alla Magliana gli uffici della direzione passeggeri, mentre i manager italiani si trasferirono ad Amsterdam a dirigere il settore cargo. Le due compagnie unificarono tutte le attività, pur rimanendo società separate, con l’impegno a spartirsi alla pari i profitti e l’obiettivo di risparmiare 400 milioni di euro entro tre anni. Indipendentemente da “Star Alliance” e “OneWorld”, si era venuto a creare il primo effettivo vettore europeo, che poteva vantare circa 40 milioni di passeggeri e 380 destinazioni totali.
Tutto è bene quel che finisce bene? Neanche per sogno. Al momento di discutere l’effettiva fusione societaria, fra gli AD Domenico Cempella e Leo Van Wijk cominciarono a crearsi dei seri screzi. Innanzitutto il governo non aveva trasferito da Linate a Malpensa tutti i voli promessi. Alla politica romana serviva mantenere Linate (inoffensiva per Fiumicino) per impedire il rafforzamento di Malpensa e la conseguente caduta di Fiumicino (e di tutta la sua corte dei miracoli fatta di numerosi dipendenti assunti solo grazie a connivenze di tipo politico) in un naturale cono d’ombra. Per non parlare delle vie di raggiungimento verso Malpensa: in modo del tutto italiano progettate, definite, appaltate, messe in cantiere dallo stato, ma mai terminate e rese operative. Ed infine, ad accrescere la tensione si aggiunsero anche gli ambientalisti e tutti coloro che fomentarono le comunità locali attigue all’aeroporto di Malpensa che, ovviamente, vedevano come fumo negli occhi il previsto aumento del traffico aereo.
Ergo, il 28 aprile 2000 il consiglio d’amministrazione di KLM bloccò la fusione e ruppe unilateralmente l’alleanza con Alitalia. Le accuse furono spietate verso l’azionista di maggioranza, cioè il governo (presidente del consiglio era Massimo D’Alema): “L’utilizzo di Malpensa come hub è stato enormemente ritardato e il governo italiano ha indicato inoltre che la prevista privatizzazione della compagnia italiana prima del 30 giugno 2000 sarà molto improbabile”. La borsa reagì a dovere: KLM alle stelle, Alitalia alle stalle. In più, Van Wijk pretese che gli rendessimo i 100 milioni versati in anticipo per Malpensa ed in realtà finiti nelle sempre capienti tasche dei manager della Magliana. Naturalmente Cempella replicò che se c’era qualcuno che doveva dei soldi a qualcuno, questi erano gli olandesi, quale penale per la rottura unilaterale degli accordi. E la richiesta fu assai salata: 250 milioni di euro. Nel frattempo, nel giugno 2000 ed in un’ottica di partnership globali naturalmente dettata del mercato, AeroMexico, Air France, Delta e Korean Air diedero vita al terzo polo mondiale dopo “Star Alliance” e “OneWorld”: nacque così “SkyTeam”. Grazie all’americana Delta ed AirFrance, “SkyTeam” poteva offrire ai passeggeri il maggior numero di voli diretti fra Europa e Stati Uniti. Ed Alitalia, rimasta zitella, che poteva offrire ai suoi passeggeri ed alle regole del mercato e della concorrenza? Nulla.
Il problema veniva come sempre bypassato da spesse iniezioni di fresco denaro pubblico, sempre utile a corroborare la fitta rete di clientele e favori ruotanti attorno al carrozzone Alitalia. Al limite, per dare una parvenza di rinnovamento, saltava la testa di qualche AD. Ed infatti, nel febbraio 2001 Cempella diede le dimissioni e subentrò il nuovo AD Francesco Mengozzi. Nel luglio dello stesso anno, Mengozzi fu obbligato dalla ragione a firmare quell’alleanza con Air France che è durata fino ai nostri giorni e che ha garantito un po’ di fettine di mercato alla nostra compagnia di bandiera, seppure sia stato un accordo sempre nettamente sbilanciato verso Parigi. Ma si sa…business is business, e Spinetta già nel 2001 non fece altro che fare il suo dovere di AD della compagnia transalpina. Entrammo così a far parte di “SkyTeam”, ma come sottoposti di Air France, quando invece avremmo potuto fargli una più che dignitosa concorrenza. Anche KLM però si ritrovò con un pugno di mosche in mano, e bussò alla stessa porta intraprendendo trattative coi francesi. Nel dicembre 2002 arrivò il verdetto dell’arbitrato sulla condotta di KLM, e fu favorevole per noi: gli olandesi ci dovevano 250 milioni di euro più gli interessi , ed altri 3,5 milioni di spese quale penale per la rottura unilaterale dell’alleanza. KLM propose un pagamento in azioni, per rendere meno pesante la botta sui loro libri contabili. Mengozzi & company rifiutarono, optando per il pagamento cash. Per Alitalia fu una vera manna, ma come sempre finita chissà dove e figlia di una scelta strategica inesistente e volta solo a carpire l’immediato.
Infatti, a causa della pesante somma versata e dell’isolamento rispetto ai tre grossi gruppi mondiali, i conti KLM andarono in crisi e si accelerò così la trattativa con Parigi per la fusione con Air France, completata nel febbraio 2004. Solo allora Alitalia capì di essere rimasta cornuta e mazziata. I soldi erano finiti chissà dove, mentre le azioni avrebbero garantito una quota vicina al 10% della nuova AirFrance-KLM post fusione, abbastanza per sedersi con diritto di parola al tavolo di Parigi. E invece niente, siamo rimasti senza né arte né parte in “SkyTeam” come una Czech Airlines qualunque. Inevitabile il rituale passaggio di consegne fra AD: questa volta a Mengozzi subentra incredibilmente Giancarlo Cimoli, che aveva appena portato le FS al collasso e se ne era andato con una super liquidazione da sei milioni e mezzo di euro. Come è possibilemeravigliarsi delle infami condizioni nelle quali è ridotta la nostra compagnia aerea, barzelletta del panorama dell’aviazione civile, quando un governo sceglie come Presidente (che si accorpa anche la carica di AD) un manager che si auto destina un mega-stipendio annuo di due milioni e ottocentomila euro, più o meno la stessa cifra di 210 dipendenti con contratti standard messi assieme? In Alitalia una hostess neo assunta prende 900 euro netti al mese come stipendio minimo garantito più le indennità in base alle ore di volo, un responsabile di cabina con 27 anni di esperienza riceve una paga minima di 2 mila euro più le indennità e Cimoli duecentomila euro al mese: uno stipendio doppio rispetto al suo pari grado in Lufthansa Mayrhuber e triplo rispetto a quello di Air France, Spinetta. Di cosa ci si stupisce ancora?
Ad aprile 2006, anche la russa Aeroflot entra a far parte di “SkyTeam” entrando dalla porta principale e mettendosi dietro le spalle Alitalia nella gerarchia del gruppo. A novembre 2006 riprendono gli abboccamenti di Cimoli verso Parigi, che pare sia l’unica soluzione possibile, ma finalmente a fine anno il consiglio dei ministri decide la cessione di una quota di controllo della compagnia. E così comincia tutto il baillamme che ci ha portato alle storie dei giorni nostri. Dapprima la gara del febbraio 2007 con cinque le cordate in gara proprio mentre Bernardino Libonati subentra come Presidente all’inutile ed onerosissimo Cimoli. Poi ad aprile le cordate si riducono a tre (Texas Pacific, AP di Carlo Toto/Intesa e Aeroflot), ed a giugno anche Aeroflot si ritira dalla gara. A luglio 2007 anche Toto lascia la gara che, di fatto, fallisce. Libonati si dimette e viene sostituito da Maurizio Prato. Il 21 dicembre 2007 il CDA Alitalia sceglie AirFrance/KLM come interlocutore esclusivo per la cessione del 49,9% in mano al ministero del tesoro. Di conseguenza arriva a metà marzo la mannaia proposta da Spinetta, che ancora una volta si dimostra abile e scaltro interlocutore, in una gara che non ha altri pretendenti e dove il prezzo per rilevare un morto che cammina, qualunque esso sia, può essere conveniente. Ma l’offerta francese, unitamente alle ovvie riduzioni di costi e sprechi tra cui gli almeno 2000 esuberi di personale, mette soprattutto in atto una politica commerciale volta a favorire il duopolio Parigi-Fiumicino, decretando la morte di Malpensa. Non tanto perché lasciata orfana da Alitalia (tanti sarebbero i pretendenti alternativi), ma quanto perché vieta la possibilità di riassegnarne gli slot. Il governo Prodi, supinamente e incredibilmente, dice “sì” in barba alla nutrita compagine di imprenditori e professionisti che quotidianamente affolla l’aeroporto milanese e traina con i suoi scambi il “made in Italy” nel mondo.
Alitalia annuncia dal 31 marzo il taglio di 180 voli sui 350 operativi sullo scalo milanese. L’ottimo Silvio Berlusconi, un po’ per campagna elettorale e un po’ per sincero amore di patria denuncia il trappolone franco-prodiano sobillando leghisti e perfino sindacalisti, i quali presentano il 2 aprile la loro controproposta ai francesi. Il governo spinge indefessamente per chiudere con Air France, ma poi nelle elezioni politiche stravince Berlusconi e il tavolo salta: Air France si ritira dalla gara. E ancora una volta, siamo pronti a versare un ennesimo “prestito ponte “ (altri 150 milioni di euro) nel pozzo senza fondo della Magliana, in barba alle direttive della commissione europea sulle regole per la concorrenza , che vieterebbero altri aiuti statali per Alitalia prima del 2011.
Ma da bravi italiani sappiamo bene che “fatta la legge, trovato l’inganno”: Amato ha già fatto sapere che invocherà le ragioni di “ordine pubblico” per ottenere il nullaosta da Bruxelles. Ma cosa attendiamo ancora? Perché coprirci ulteriormente di ridicolo? Perché questo nuovo governo, ancora prima di insediarsi, già appoggia la soluzione dell’ennesimo prestito a fondo perduto? Se si vogliono mascherare le solite lobby e protettorati (specie in quota AN) è inutile questa volta ricorrere alla consueta manfrina sulla salvaguardia dei posti di lavoro. Questione sacrosanta, per carità! Ma che sarebbe risolvibile con un adeguato ricorso ed una corretta applicazione della legge Marzano, come aveva prefigurato due settimane fa l’ormai ex-ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa. La legge Marzano nacque durante i grandi recenti crac finanziari (Cirio e Parmalat), e contiene misure per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza. Un provvedimento che però è applicabile solo a condizione che ci sia per l’appunto una dichiarazione acclarata di insolvenza. Il provvedimento prevede l’accesso ad una procedura di amministrazione straordinaria con un commissario che ha 180 giorni di tempo (più una possibile proroga di 90 giorni) per il piano di ristrutturazione e tutela dei dipendenti, al netto degli esuberi. Lo stato di insolvenza viene accertato dal tribunale e, se il ministero delle Attività produttive non autorizza l’esecuzione del programma stabilito dal commissario designato, si prevede la conversione dell’amministrazione straordinaria in fallimento.
E anche se fosse questo il destino finale di Alitalia, che c’è di male? Anzi, credo che ne potrebbero solo giovare tutti. Attualmente è un’azienda che perde un milione di euro al giorno. Ha dipendenti da sempre in esubero. Volare da Roma a Milano costa oltre 400 euro. Paga quotidianamente inutili costi di trasferta ed alloggio (in hotel non certo da una stella) al personale di bordo che vive a Roma e si sposta a Milano per partire dal capoluogo lombardo. Un’azienda depauperata e depredata da decenni di cattiva gestione finanziaria e di pervasiva “usucapione” politica. Un “buco nero” lungo quindici anni costato alla collettività più di 300 euro all’anno per ogni cittadino, neonati compresi. Basta iniezioni di liquidità in Alitalia a spesa dei cittadini. Perché in un’epoca di economia globale, dove il mercato ha le sue regole, i suoi tempi, i suoi effetti, una compagnia così non dovrebbe fallire? E’ già successo a colossi come PanAm nel 1991 (rilevata poi da Delta), TWA nel 2001 (rilevata da American Airlines), Sabena nel 2001 (rinata poi come Brussels Airlines nel 2006)e Swissair, la quale non ha avuto alcuno scrupolo nell’effettuare il famoso “grounding” del 2 ottobre 2001 (divenuto anche la trama di un film docu-fiction del 2004: “Grounding: the last days of Swissair”) quando improvvisamente il CEO Mario Corti decise di interrompere ogni operazione di volo: una delle più importanti compagnie aeree mondiali rimase improvvisamente a terra con migliaia di passeggeri intorno al mondo. Alcuni equipaggi rimasero bloccati all’estero, le loro carte di credito aziendali furono bloccate dalle banche e alcuni dipendenti dovettero utilizzare soldi propri per pagarsi gli alberghi. Inoltre, tutti i biglietti aerei emessi da Swissair divennero carta straccia. La Swissair non esisteva più. Ma la sera stessa era già stato firmato l’accordo con la regionale Crossair che gettava le basi per la rinascita della compagnia col nuovo nome “Swiss International Airlines”, tuttora operante e facente parte di “Star Alliance”.
Ecco perché un fallimento con tutte le carte in regola sarebbe la vera salvezza di Alitalia, per poi poter essere rilevata da un serio gruppo imprenditoriale che da uno “stipendificio” per tanti e tanti fannulloni e privilegiati di stato potrebbe dare un taglio netto a tutti i legami del passato e farla funzionare gestendola managerialmente come viene gestita ogni altra azienda privata orientata al servizio ed al profitto. E magari anche essere trasformata in un gioiello del trasporto aereo, che grazie al turismo calamitato quotidianamente dal nostro Paese, potrebbe renderla leader nelle tratte d’afflusso mediante una precisa strategia aziendale e commerciale utile ad attrarre capitali e risorse di un’economia nuova e dinamica. Anche qui, come per il post-voto, si apre una nuova era che dimostrerà se siamo davvero in vista di una seria rivoluzione delle idee e dei modi di pensare al nostro bene comune, o se è stata semplicemente la solita illusione tradita di un’Italia migliore.