La scorsa settimana i dati dell’Istat hanno fatto scattare l’allarme inflazione, mentre l’Autorità sull’Energia ha confermato i rincari per le bollette di luce e gas. Il governo si è già messo in moto per cercare una soluzione per alleviare l’aumento dei prezzi per le famiglie, che le associazioni dei consumatori hanno individuato tra i 1.200 e i 1.700 euro annui.
Una “voce fuori dal coro” è sembrata quella del Centro Studi Confindustria che ha lanciato uno studio dall’eloquente titolo “L’inflazione non c’è”. Per meglio capirne i contenuti abbiamo intervistato Luca Paolazzi, Direttore del Centro Studi Confindustria.
Dalle vostre analisi sembrerebbe emergere il fatto che in Italia non esisterebbe, in questo momento, l’inflazione. Per quale motivo?
L’inflazione è un aumento generalizzato e abbastanza conforme dei prezzi. Quello che stiamo osservando adesso nel Paese è un aumento molto forte, e per forza di cose preoccupante, solo di alcuni beni. Anche nel paniere dell’Istat osserviamo che solo quelle voci di spesa che hanno come materie prime questi beni risentono di marcati aumenti, mentre altri capitoli di spesa segnano una stagnazione o addirittura, rispetto all’anno scorso, una riduzione: in questo contesto non si può parlare di inflazione.
Avete usato dei dati diversi dall’Istat?
I dati sono gli stessi, è la lettura che è diversa, perché se ci si ferma all’indice generale di prezzi al consumo si vede unicamente un aumento nel tasso di incremento annuo dei prezzi che passa dal 2,9% al 3,3%. Questo può portare a parlare di un’inflazione che accelera, mentre in realtà si è di fronte a un fenomeno di cambiamento dei prezzi relativi, in cui, come detto prima, solo alcuni beni aumentano, non tutti.
Questo aumento fenomeno non ha un’origine italiana, non è cioè dovuto a un cambiamento nella distribuzione del reddito italiano, per la quale di questo cambiamento dei prezzi relativi si avvantaggiano alcuni operatori economici nazionali a scapito di altri operatori economici sempre italiani; è invece una redistribuzione del reddito a livello internazionale che va verso i produttori di questi beni – che sono soprattutto energetici e alimentari – a scapito dei paesi consumatori.
Difatti osserviamo che l’accelerazione di prezzi al consumo c’è negli Stati Uniti, come in Italia, come in Germania, come in Francia. Però se togliamo dall’aumento dei prezzi al consumo l’incremento dovuto a questo particolari beni energetici e alimentari osserviamo che la dinamica dei prezzi al consumo rimane bassa, ovvero sotto il 2%.
Avete già individuato delle misure da adottare per frenare la crescita dei prezzi di questo tipo di beni?
Le misure che noi indichiamo sono di mercato, quindi una risposta dal lato dell’offerta per creare più efficienza e ridurre le aree di rendita che esistono, per esempio, nella distribuzione. Se pensiamo a quella della benzina o del gasolio in Italia e la confrontiamo con quella di altri paesi scopriamo che potremmo risparmiare 5-10 centesimi al litro. Ed è qualcosa che non ha nulla a che fare con il costo di questa energia.
D’altra parte sarebbe sbagliato intervenire sui prezzi: questi infatti sono segnali che indicano scarsità della materia, e quindi non bisogna agire su quel fronte altrimenti la gente viene incentivata a consumare qualcosa che è di per sé scarso, e questo è controindicato.
Altre misure possono essere applicate, per esempio, nel campo della politica energetica: l’Italia è molto dipendente dal petrolio e utilizza poco le energie alternative, ed è uscita completamente dal nucleare.
Da questo punto di vista i suggerimenti potrebbero essere un aumento dell’offerta del petrolio da parte dell’Opec e politiche che possano aprire al nucleare anche in Italia?
In verità l’aumento del offerta del petrolio è stata chiesta da fonti molto più autorevoli della nostra, ma senza esiti. La ragione è che in realtà non è solo l’Opec a governare l’offerta, ma ci sono altri paesi, come la Russia, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e la Norvegia.
Ritengo invece che una politica più consapevole nel lungo periodo riguardo alle fonti energetiche, che ricomprenda anche il rilancio nucleare, sia importante. È chiaro che questo non ha effetti immediati sul costo dell’energia, ma lo otterrà nel lungo periodo. Teniamo però conto che siccome questi aumenti dei prezzi dell’energia hanno un’origine strutturale, che è quella dello sviluppo dei paesi emergenti, il petrolio rimarrà una risorsa scarsa e quindi costosa. Forse in questa fase c’è stata anche un’accelerazione dei rincari legata a fenomeni di tipo finanziario: per esempio, molti investitori, usciti dalle borse, si sono riversati su materie prime come l’oro e il petrolio stesso.
Altre misure potrebbero riguardare i beni alimentari, perché noi viviamo in una condizione di controllo dell’offerta all’interno dell’Unione Europea attraverso la Politica agricola comune. Questo serviva sostanzialmente a sostenere i prezzi in Europa per consentire agli agricoltori di avere un reddito sufficiente. Nella misura in cui questi prezzi si autosostengono attraverso la domanda mondiale, non si vede perché si debba continuare ad adottare questo tipo di politica che di fatto riduce l’offerta e quindi tende ad aumentare ulteriormente i prezzi.
Come si possono sostenere le famiglie, che devono far fronte a questo aumento dei prezzi?
Chiaramente una premessa è importante: dire che non c’è inflazione non equivale a dire che l’aumento dei prezzi non incida sul benessere delle famiglie o su ampi margini di imprese, e quindi sulla crescita. Questo aumento delle materie prime internazionali comporta un impoverimento dell’intera nazione e quindi una riduzione, per esempio, del tasso di crescita e una penalizzazione dei consumi delle famiglie. In particolare, dato che si tratta di beni di prima necessità, ad essere più penalizzate sono le famiglie che hanno redditi più bassi, perché questi generi hanno nella loro spesa un peso maggiore.
Ma non si può intervenire con misure generalizzate che vanno a beneficio di chiunque. Per esempio, la misura che ha ridotto di 2 centesimi il costo della benzina alla pompa è qualcosa di cui beneficia anche una persona che ha un reddito elevato senza averne veramente bisogno. Bisognerebbe intervenire dunque con misure che siano a sostegno del reddito di queste famiglie. Purtroppo in Italia spesso si ricorre alla dichiarazione dei redditi come misura di indigenza, senza contare il fatto che queste non sono, in molti casi, veritiere. Bisognerebbe invece usare delle misure di reddito equivalente, come quelle che vengono usate quando si erogano servizi a livello locale, oppure l’esenzione dai ticket e quindi attribuire agli enti locali una responsabilità nell’accertare quali sono le famiglie che in questa fase stanno subendo una maggiore erosione del potere d’acquisto.
Un’altra ipotesi che avete sostenuto è quella dell’adozione di un nuovo tipo di welfare…
Si, un welfare che sia più attento, mirato e meticoloso e non che si istituisce in base ad astratte categorie di percentuali di reddito, per esempio “tutti i pensionati”, “tutti i lavoratori dipendenti”, ecc.
Bisognerebbe distinguere all’interno delle categorie, andando a vedere quali sono effettivamente le condizioni di vita delle singole famiglie. In questo senso occorre un welfare più moderno.