Assistiamo in questi giorni a quella che i media hanno definito “emergenza cibo” e che pare minacciare non solo i paesi poveri. È questo lo scenario reale in cui ci stiamo muovendo? Siamo di fronte a una crisi strutturale?

La situazione di oggi non è molto diversa da quella descritta nel rapporto della Fao del 2003 (il World food report): ci sono circa 800 milioni di persone che lottano per sopravvivere alla fame, 2 miliardi di persone che vivono il problema della sottonutrizione e, contemporaneamente, 1 miliardo e mezzo di persone che occupa gran parte delle proprie energie per diete dimagranti.
Contemporaneamente, credo che abbiano una forte incidenza sullo scenario attuale la questione speculativa, e l’ormai noto “fattore Cina”. Mi spiego: per produrre un chilo di carne bovina occorrono sette chili di cereali, per un chilo di carne di pollo ne occorrono due. Evidentemente, modificando la composizione della dieta, le derrate alimentari sono destinate a sfamare gli animali, perchè il ciclo dell’uomo è molto più lungo. È stato calcolato che se tutti i cinesi aumentassero di un chilo di carne di pollo all’anno la propria dieta, occorrerebbe tutto il grano del Canada per alimentare i polli cinesi. In generale, il miglioramento delle condizioni di vita che progressivamente avviene nel mondo porta gli esseri umani ad un maggior consumo di carne, cosa che incrementa la domanda di alimenti vegetali per gli animali.
Occorre inoltre sapere che il 17% delle terre irrigate genera il 40% della produzione mondiale, quindi occorrerebbe un uso razionale dell’acqua, ma questo è frutto di una cultura, di un’educazione. Ci sono aree dell’Africa sub-sahariana dove l’acqua non è un fattore limitante, eppure le popolazioni muoiono di fame o vivono ai limiti della sopravvivenza.
Esiste poi il complesso problema degli aiuti all’agricoltura del Nord del Mondo: si tratta di oltre 230 miliardi di dollari, ovvero 30 volte la cifra investita per il settore agricolo nei Paesi in via di sviluppo, senza contare che un miliardo di dollari al giorno (circa un dollaro al giorno per ogni animale) viene destinato agli allevamenti bovini dei paesi sviluppati.
Non sembra una grossa cifra, ma non va dimenticato che nel mondo ci sono 1 miliardo e 300 milioni di persone che vivono con un reddito di circa un dollaro al giorno. Questi esempi servono a dimostrare che la materia è complessa: occorre non cedere alla tentazione delle semplificazioni. Esistono delle evidenti distorsioni, ma non si può rimanere al livello della semplice constatazione, occorre capire come intervenire.



Da questo punto di vista, voi come Ong operate direttamente sul territorio. Che tipo di situazioni incontrate? E come cercate di rispondervi?

Ci sono paesi in cui esiste un’emergenza alimentare cronica (e su questo va puntata l’attenzione), mentre ci sono paesi che hanno emergenze congiunturali. Nella prima tipologia di paesi classifico Haiti, per fare un esempio, mentre nella seconda l’Argentina.
Tutti i progetti di Avsi si basano su un fattore educativo, compresi quelli relativi a emergenze più complesse, come in Nord Uganda o nel Sudan meridionale, dove per motivi oggettivi la gente non può coltivare le terre: sono zone di guerra e la popolazione è ammassata in campi profughi. Anche in questa situazione, tuttavia, esiste la possibilità, in una “fascia di sicurezza” intorno ai campi profughi, di realizzare dei piccoli orti. Se si salta questo livello e si portano sempre e solo gli aiuti alimentari, non si crea un’educazione, ma assistenzialismo e dipendenza.
Si rischia quindi di mettere in atto interventi che già da tempo hanno mostrato i propri limiti. Per esempio, nel 1961, il Presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy, unificando le diverse agenzie che si occupavano di cooperazione allo sviluppo per il governo americano, creò “Usaid”, che per rispondere a una crisi alimentare di Haiti avviò programma di emergenza alimentare proseguito per decine di anni. Proprio l’isola caraibica è stata, qualche settimana fa, teatro di uno dei focolai di violenza e di rivolta per l’aumento del prezzo del riso. Questo fa interrogare sull’adeguatezza di programmi di aiuto così prolungati nel tempo.
In quella stessa situazione e nello stesso luogo, circa 40 anni dopo, in collaborazione con l’Università Cattolica Notre Dame d’Haiti, a Les Cayes, Avsi ha realizzato una fattoria sperimentale, una forma di “extension” (ex cattedre ambulanti) che ha trasferito know how: gli agricoltori sono arrivati ad ottenere tre raccolti di riso anziché uno e in alcuni casi a quadruplicare la produzione.
In Rwanda, invece, abbiamo realizzato un centro di lotta alla malnutrizione. Qui, oltre a curare nell’immediato l’emergenza nutrizionale dei bambini, le madri vengono accolte per due settimane e viene insegnato loro a gestire una dieta equilibrata per i figli, oltre alle conoscenze necessarie per costruire un piccolo allevamento “familiare”, cui contribuiamo regalando una coppia di animali. Le mamme si assumono inoltre l’impegno di restituire al centro un capo tra quelli che nasceranno dal loro allevamento. In questo modo si innesca un meccanismo che coinvolge direttamente le famiglie.
Questi esempi ci dimostrano come sia efficace affrontare l’emergenza coinvolgendosi con la popolazione locale, attraverso delle attività che incidono sulla vita quotidiana, perché le persone imparino la cultura dell’auto-sostentamento e dello sviluppo e crescita personale e famigliare.



Cosa pensa invece degli interventi messi in atto dalle organizzazioni internazionali?

Credo che le task-force, le agenzie delle Nazioni Unite, le banche di sviluppo create dagli accordi di Bretton Woods in poi, si siano dimostrate utili finché non si sono trovate di fronte a un mondo completamente diverso. Ora tutte soffrono di un certo anacronismo. I grandi progetti e i grandi stanziamenti fatti sull’onda “emotiva” non aiutano a risolvere il problema in maniera stabile e duratura.
Ritengo che vada creato un nuovo modello di cooperazione, calato in un mondo globalizzato e caratterizzato da dinamiche diverse rispetto a quelle di 60 anni fa.
L’agricoltura torna con questa crisi ad un ruolo centrale nelle dinamiche socioeconomiche mondiali; occorre attuare interventi mirati alla formazione e alla valorizzazione dei saperi e del patrimonio naturale locale. Ad esempio, la realizzazione di aziende sperimentali dimostrative anche nei luoghi con la situazione più critica, permetterebbe alle persone di lavorare direttamente, imparare a coltivare e produrre localmente, rispondendo all’emergenza e mettendo in moto un meccanismo di sviluppo locale.
Se si ritiene che gli interlocutori in queste situazioni di emergenza siano solo gli Stati e non i corpi intermedi, le aggregazioni di persone, i produttori, non si andrà molto lontano. Il ruolo delle Ong come iniziatori e facilitatori di un processo di sviluppo locale è fondamentale.



Su questo nuovo modello di cooperazione, il nuovo Governo potrà fare qualcosa?

Il nuovo Governo si richiama moltissimo alla sussidiarietà e io chiedo che negli aiuti internazionali sostenga e difenda questo principio. Esiste una tendenza allo statalismo planetario da parte degli organismi internazionali che non tiene in considerazione la società, i corpi intermedi, ma si rivolge solo ai Governi.
I meccanismi di finanziamenti che vanno direttamente a supporto del bilancio dei Governi di fatto escludono le persone. C’è un multilateralismo statalista imposto dalle politiche degli organismi internazionali pericolosissimo che deresponsabilizza il cittadino.

Rispetto alla sua esperienza, ritiene che il disequilibrio alimentare tra i paesi ricchi e i paesi poveri sia destinato ad aumentare o potrà essere ridotto?

Se pensiamo che il problema sia quello di inviare le eccedenze alimentari dei paesi ricchi in quelli poveri, il disequilibrio aumenterà senz’altro. Del resto il disequilibrio esiste anche internamente ai paesi ricchi e a quelli poveri. Se invece si affronta il problema da un punto di vista educativo, coinvolgendo le popolazioni locali e aiutandole a riscoprire la propria dignità, sicuramente il divario diminuirà. La maggior parte dei Paesi più poveri hanno tutte le condizioni naturali per l’autosufficienza alimentare. A questo proposito, c’é una bellissima frase di padre Gheddo: «Tra i ricchi e i poveri, sviluppati e sottosviluppati, tecnicizzati o analfabeti, esiste un abisso non tanto economico, quanto culturale». Gheddo spiega che il problema è che i popoli africani, asiatici, latinoamericani vivono in un paradigma diverso rispetto a quello dei popoli Nord-occidentali, per cui nei villaggi africani arrivano la radio, la televisione, le pompe per l’acqua, le auto, e la mentalità e la struttura sociale si trovano di fronte ad una realtà ancora estranea. Come superare questo abisso culturale? Con l’educazione vicendevole. Invece di inviare macchine e denaro, occorrerebbe mandare uomini e donne a condividere il destino e la passione per questi fratelli. Credo che padre Gheddo abbia un’esperienza di Africa molto profonda e io condivido totalmente ciò che lui sostiene.

Come possono fare i cittadini a fornire un contributo attivo per fronteggiare l’emergenza cibo? A questo proposito come giudica la consultazione popolare promossa dall’Unione europea sugli aiuti agroalimentari ai banchi alimentari?

Ritengo che i Banchi alimentari stiano svolgendo un lavoro straordinario: risolvono una parte del problema e quindi sottoscrivere la petizione per sostenere i banchi è fondamentale. Se un cittadino intende aiutare qualcuno, deve aiutare chi è sul terreno, chi ha un contatto diretto con le popolazioni, chi sta facendo un cammino di sviluppo insieme a queste persone. Credo che questa sia la maniera più efficace. Insegnare a coltivare è fondamentale: lo sviluppo dell’agricoltura nella pianura padana lo si deve a uomini che avevano un senso profondo della propria esistenza, i Benedettini. Si trattava di terre malsane, ma avendo loro un ideale per cui spendere la vita, cioè la dignità, le hanno fatte diventare le più fertili del mondo. Credo che questo livello di libertà dell’essere umano non possa essere saltato. Senza questo trasferiamo beni, tecnologie e macchinari, ma non educhiamo le persone.

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