Caro Direttore,
Quando ho iniziato a lavorare sul libro Talento da svendere, avevo in mente due obiettivi principali. Innanzitutto desideravo proporre un’analisi della questione del “Talento” e della competitività italiana che andasse oltre ai soliti stereotipi della creatività italiana da un lato e dei “cervelli in fuga” dall’altro. Un’analisi che mostrasse sia le caratteristiche e il ruolo svolto dal fattore umano nel sistema economico globale di oggi, sia la complessità del processo di formazione e valorizzazione del talento e la molteplicità dei soggetti coinvolti.
In secondo luogo speravo che questo approccio più metodico e trasversale consentisse finalmente di impostare un dibattito meno ideologizzato e più approfondito sul tema; che aprisse la porta, come sottolinea De Maio nel suo commento, a degli interrogativi importanti che non possiamo più eludere.



Per esempio, considerato che il primo anello di quella che nel libro chiamo la “catena del valore del talento” è la formazione, qual è, ad oggi, lo stato e la competitività internazionale del nostro sistema formativo? Diciotto anni fa (18!) l’economista americano Robert Reich scriveva che la competitività e la crescita di un paese non dipendevano più – e sarebbero dipese sempre di meno – dall’esistenza di grosse industrie nazionali, ma dalle competenze dei talenti di quel paese e da quanto queste erano valutate dal resto del mondo. In che modo l’Italia ha coltivato, aggiornato e qualificato le competenze e la qualità della formazione dei propri talenti?
Abbiamo trasformato il sistema dell’offerta formativa, moltiplicato corsi e sedi universitarie senza però accompagnare a questa trasformazione una riforma del sistema di reclutamento dei docenti e della loro valutazione in modo da garantire non solo un cambiamento quantitativo, ma qualitativo delle nostre università. E mentre noi, ancora oggi, stiamo qui a dibattere e ad azzuffarci per mantenere “nostra” l’Alitalia, il nostro sistema universitario e della ricerca langue e lascia ignorati e abbandonati migliaia di ricercatori e docenti che con fatica e professionalità cercano di svolgere quella che dovrebbe essere l’attività più nobile e importante di ogni sistema economico avanzato.



La seconda questione chiave da affrontare quando si parla di talento e di “fattore umano” è come questo viene non soltanto formato, ma assorbito e valorizzato dal sistema economico e produttivo esistente. E questo è, in realtà, uno dei nodi cruciali della difficoltà italiana.
Infatti, la situazione di stallo dal lato dell’offerta di talenti è indissolubilmente legata a una domanda di talenti da parte del sistema delle imprese non sufficientemente matura e sviluppata. Nel 2007 solo il 9% di tutta la domanda di lavoro proveniente dalle imprese riguardava figure professionali altamente qualificate; e mentre in paesi come gli Stati Uniti le figure più richieste sono ingegneri biomedici, elettronici e ambientali, da noi la figura più richiesta dalle imprese è ancora, incontrastata da anni, il ragioniere, e tra le professioni in maggiore espansione troviamo, per il 2007, commessi e impiegati.
Questa difficoltà ad assorbire e valorizzare il talento rappresenta un problema enorme per l’Italia, sia per le sue ricadute sulla motivazione delle nuove generazioni (che vedono scarsi incentivi a studiare e migliorare le proprie qualifiche), sia per le conseguenze più generali che essa ha sulla crescita del paese e su alcuni suoi aspetti fondamentali, come la capacità di innovazione o la produttività del lavoro, che è praticamente ferma ormai da anni. Infatti, si parla spesso di innovazione e produttivià come se dipendessero solo da tasse o da orari di lavoro e ci scordiamo invece che esse sono principalmente una questione di qualità del lavoro, una qualità che deriva da investimenti in nuove tecnologie, ma anche, e soprattutto, in riqualificazione della forza lavoro, attenzione ai processi di formazione e valorizzazione delle risorse umane e del talento degli individui.



Qui si innesta la questione rilevantissima posta da Adriano De Maio sul rapporto tra istruzione e sviluppo nel nostro paese – è verissimo, e se ne parla anche nel libro attraverso alcuni dati, che nel nostro paese le zona più ricche sono quelle meno istruite: ma quanto può durare questa anomalia? Quanto può mantenere la sua competitività internazionale un sistema produttivo e industriale che fa fatica a relazionarsi con le evoluzioni sempre più sofisticate delle tecnologie, dei modelli di business, delle complesse strategie finanziare e commerciali che si delineano a livello internazionale?
Questo scenario complesso e difficile avrebbe richiesto interventi forti e decisi da parte del sistema politico – interventi che invece sono mancati, perchè il sistema politico ha preferito strategie difensive sia dal punto di vista economico che politico – strategie che tamponassero qualche emergenza, che proteggessero alcune categorie in difficoltà, in modo da garantirsi il supporto di alcuni grandi gruppi di interesse secondo logiche di gestione del consenso di breve periodo.

È così che si è finito per rompere quello che Andrea Ichino, con una bella espressione, definisce il “contratto sociale” tra cittadini e istituzioni e che fa sì che i cittadini si sentano stimolati a fare e dare il meglio di sé solo quando percepiscono che questo serve davvero a migliorare la propria condizione economica e sociale. Quando questi meccanismi di riconoscimento sociale, di rigore e imparzialità nelle valutazioni dei meriti si inceppano, si blocca l’elemento chiave che tiene in piedi un sistema: la motivazione e la fiducia delle persone che ne fanno parte. E in questo modo non si può sperare di essere davvero competitivi e attrattivi nel mercato internazionale dei talenti e dei saperi, nell’economia globale trainata da innovazione e creatività.
Per ripartire occorrono, quindi, degli atti di coraggio e di serietà, la capacità, come scrive Ichino, di rimettersi tutti in discussione, e di non nascondersi dietro ai nostri soliti miti del genio italico o dell’attrattività innata e naturale del nostro paese – non tanto perchè siano sbagliati ma semplicemente perchè, lasciati così come sono e senza serie politiche di valorizzazione, sono assolutamente inutili.