«Il mito del XXI secolo, il mito dell’economia che è tutto, che sa tutto, che fa tutto; il mito dell’economia dominatrice assoluta della nostra esistenza, matrice esclusiva di tutti i saperi e di tutti i valori; il mito a cui soprattutto in Europa tantissimi hanno creduto in questi ultimi anni, ci ha in realtà prima rubato un pezzo di vita e di storia […] e poi ha fallito nel suo piano innovativo e progressivo di ingegneria sociale globale mosso dal motore primo della finanza». Sono queste le parole preoccupate di Giulio Tremonti nel suo recente e famosissimo libro.
Il neoministro dell’economia compie un’operazione senz’altro interessante, per quanto problematica; egli tenta la sostanziale equiparazione tra globalizzazione e ciò che chiama “mercatismo”. Il mercatismo, a rigor di logica, dovrebbe rappresentare l’ideologia del mercato, una sorta di ferrea gabbia logica nella quale le uniche variabili significative sarebbero i prezzi e le quantità domandate ed offerte. Non esistono i valori, non esiste la politica, non esiste la pratica della virtù. Quindi non esiste l’uomo, ma la sua caricatura, l’homo oeconomicus. Un mercato siffatto non sarebbe solo disumano, semplicemente non sarebbe.



Esistono numerose teorie sui mercati e ciascuna consente di inquadrare un aspetto del complesso fenomeno economico; ad ogni modo, in tema di globalizzazione, di economia planetaria, di processi produttivi che si sviluppano in una “società aperta”, sembra che la definizione di mercato offertaci dal premio Nobel F. A. von Hayek possa esprimere con maggiore forza gli elementi che qualificano sotto il profilo economico, politico e culturale gli anni che stiamo vivendo. Sulla base della definizione di Hayek, il mercato non rappresenta l’elemento concettuale di una ideologia, bensì è un meccanismo – un processo – ottimale per la raccolta e la trasmissione di informazioni. Tali informazioni rappresentano gli elementi necessari affinché le centinaia, le migliaia e i milioni di economie individuali, aventi finalità proprie e portatrici di interessi imperscrutabili, siano coordinate tra di loro in modo spontaneo.
Nessuna singola economia (individuale, familiare, aziendale, della pubblica amministrazione) è in grado di gestire un flusso di informazioni tali da conoscere le finalità, gli interessi e i piani altrui. Come giustamente ci ha fatto notare Hayek in tutta la sua opera scientifica, le informazioni sono diffuse e disperse, possedute in modo autonomo dai singoli individui, i quali le trasformano, le traducono, le alterano, le tramandano, le nascondono. Il che significa che, data la dispersione delle conoscenze, esse non potranno mai essere conosciute simultaneamente da tutti, ovvero raccolte in un unico centro di elaborazione.
Non esiste un programma in grado di computare tutti i dati e fornire soluzioni certe, condivise ed ottimali per tutti. Non dobbiamo dimenticare che, quando parliamo di informazioni in ambito economico, ci riferiamo in primo luogo ai gusti, alle preferenze, alle abilità e alle disponibilità individuali. In che modo, ad esempio, possiamo coordinare gli interessi, i gusti, le aspettative, in breve, i piani dei singoli acquirenti (milioni di acquirenti) di prodotti alimentari, con gli interessi, i gusti, le preferenze e i piani dei singoli produttori (milioni di produttori) di beni alimentari? Risponde l’economista: questi due complessi sistemi di preferenze individuali che vedono contrapposti produttori e acquirenti, sono compatibili in virtù del sistema dei prezzi che agisce da elemento di coordinazione. Sappiamo tutti, infatti, che attraverso la fissazione dei prezzi e delle loro variazioni, il mercato inteso come processo di raccolta e di trasmissione delle informazioni, da un lato trasmette queste ultime in ordine ai gusti e alla preferenze individuali ai produttori e dall’altro la disponibilità di risorse e la possibilità di produrle agli acquirenti.



Ciò detto, appare evidente che un mercato sarà tanto efficiente – consentirà un’adeguata allocazione delle risorse, riducendo al minimo gli sprechi – quanto maggiore risulterà la diffusione delle informazioni. Il potere di mercato di un singolo acquirente dipende direttamente dal numero di venditori presenti sul mercato. Maggiore è il numero di venditori, maggiore sarà la disponibilità del bene e, di conseguenza, la libertà dell’acquirente di rivolgersi ad opzioni alternative. La situazione nella quale ci fosse un unico o pochi venditori costringerebbe l’acquirente a soggiacere alle condizioni poste dai pochi o dall’unico venditore. Si comprende che, al contrario, un mercato caratterizzato da un vasto numero di produttori-venditori rappresenta un’opportunità favorevole agli acquirenti, i quali vedono coordinarsi i loro piani individuali in modo spontaneo grazie alle interazioni del mercato: un venditore che non soddisfa i miei interessi, i miei gusti, le mie aspettative viene facilmente sostituito da qualche altro venditore.
Il discorso ovviamente è simmetrico se capovolgiamo lo schema di riferimento. Un unico o pochi acquirenti rappresentano un segno di debolezza dei venditori rispetto agli acquirenti. A questo punto è chiaro che il potere di mercato dei venditori aumenta all’aumentare del numero dei potenziali acquirenti. Generalizzando, possiamo affermare che la libertà individuale e l’efficienza del mercato sono funzioni positive dell’ampiezza del numero di alternative. Il che significa che al crescere del numero di venditori e degli acquirenti, diminuisce, rispettivamente, il potere degli acquirenti e quello dei venditori.
Tuttavia, non è sufficiente affermare che esiste un gran numero di alternative rispetto alle preferenze espresse dai soggetti economici. È necessario che tali alternative siano portate a conoscenza degli operatori, ossia dei consumatori e dei produttori. Ignorare l’esistenza di determinati produttori di specifiche merci significa non poterne usufruire e, di conseguenza, veder limitato il potere di mercato: in un sistema di mercato ignorare un’informazione significa perdere potere competitivo, ovvero non poter usufruire di un’alternativa la cui conoscenza avrebbe modificato la mia azione. La pubblicità, dunque, rappresenta la forma di comunicazione attraverso la quale l’informazione necessaria al funzionamento e all’efficienza del mercato può essere portata a conoscenza, dunque, registrata e trasmessa ad un vasto numero di persone, avvantaggiando il corretto funzionamento della concorrenza tanto dal lato dei consumatori, quanto dal lato dei produttori.



Le paure di Tremonti sono le paure di noi tutti, ma nello stesso tempo i rimedi ci appaiono alquanto problematici. Chiunque abbia letto il suo libro sa bene che egli non propone alcun protezionismo, bensì l’analisi delle condizioni che possano consentire agli operatori del mercato di agire in modo consapevole, senza il timore di ritrovarsi in una gara di roulette russa.
A questo proposito, in questi giorni ho ripreso tra le mani un vecchio libro di un autore affascinante e pressoché sconosciuto tra gli economisti accademici. Un libro scritto nel 1958 da Giuseppe Palladino intitolato La recessione economica americana (Angelo Signorelli Editore, Roma 1958) che tratta dei sintomi, delle cause e dello studio dei rimedi delle recessioni economiche. Siamo lontani dai nostri giorni e qualsiasi confronto tra le recessioni statunitensi del passato, a partire da quella del ’29, e le attuali turbolenze non avrebbero alcun significato. Ad ogni modo, Palladino afferma che negli Stati Uniti il processo salari-costi-prezzi-salari sarebbe uscito dalla guida tradizionale del mercato per risoversi in un rigido rapporto di forza tra imprenditori e sindacati, da un lato, e produttori e consumatori, dall’altro. Di contro, l’altro processo, quello relativo alla produttività-costi-prezzi si sarebbe impantanato nelle secche dell’economia istituzionale, deviando anch’esso dalla logica del mercato.
In condizioni di economia aperta, il processo produttività-costi-prezzi si risolve a vantaggio della comunità (tribale, nazionale o globale che sia). Invece, scrive Palladino, «da quando l’oligopolio, da una parte, e le rigidità istituzionali, dall’altra, si sono sostituiti alla regole del libero mercato, accade in America e altrove che l’incremento della produttività si risolve prevalentemente in una maggiore remunerazione dei fattori produttori impiegati in quell’azienda, in quel settore e in quella economia, ove più si facilmente si riesca ad incrementare la produttività rispetto alle altre unità similari».
Ed è a questo punto che il nostro autore evidenzia come all’artificio che conduce fuori dal mercato il processo produttività-costi-prezzi, presto o tardi, se ne aggiunge sempre un altro, quello di appellarsi ai dazi: «Sicché mentre una volta i dazi erano impiegati dai paesi economicamente meno progrediti per difendere industrie nascenti o settori poco efficienti, ora ai dazi si ricorre per il tenore di vita dei paesi più ricchi dalla concorrenza del basso costo del lavoro dei paesi più poveri». E conclude: «Per tale via, cioè con il modo artificioso con cui si risolve ora l’incremento della produttività, si è giunti all’assurdo che i paesi ricchi e progrediti sono divenuti protezionisti e quelli poveri e arretrati liberisti».

Oltre le paure e le speranze, bisognerebbe riconoscere che la famigerata, lodata, contestata, rifiutata, ma sempre e comunque citata globalizzazione, al pari dell’economia di mercato, è un fenomeno tutt’altro che recente, risponde a categorie di ordine logico-naturale, piuttosto che storico-politiche: Adam Smith affermava che due uomini che si incontrano per la prima volta cominciano a scambiarsi idee sulla luna.
Tuttavia, non possiamo negare che essa ha assunto nelle ultime decadi delle caratteristiche del tutto particolari. È stimato che sui mercati valutari mondiali vengano scambiati quotidianamente diverse migliaia di miliardi di dollari. Ciò nonostante, dobbiamo riconoscere che la globalizzazione non si esaurisce nel flusso di moneta e di merci; essa interessa soprattutto la crescente interdipendenza della popolazione mondiale.
La globalizzazione del terzo millennio appare sempre più come un fenomeno che integra la dimensione economica con quella politica ed entrambe con quella culturale. La globalizzazione, infatti, offre l’opportunità di dislocare il processo produttivo nei luoghi più distanti del pianeta, al punto che persino la fabbricazione di una semplice penna diventa il frutto di una complessa interdipendenza tra nazioni e culture diverse. L’abilità di dar vita ad una comunità transnazionale – oltre a quella dei colleghi e degli stakeholders – e, di conseguenza, transculturale e transreligiosa, favorendo, peraltro, lo sviluppo pacifico delle relazioni politiche ed economiche tra paesi ricchi e paesi in via di sviluppo, è la terza forma di comunità che, non il “mercatismo”, ma la libera economia imprenditoriale è in grado di costruire: «Se su di un confine non passano le merci, attraverso di esso passeranno i cannoni», affermava l’economista francese e cattolico Frederic Bastiat.

(Foto: Imagoeconomica)