La sinistra ha perso le elezioni anche e soprattutto per due motivi: una politica fiscale folle e l’accanimento ideologico sui temi etici. Fedele alla linea (come non lo è più, per fortuna sua e nostra, neppure il fondatore del grande ed omonimo gruppo rock, lo splendido Giovanni Lindo Ferretti), chiude il suo mal sopportato concerto con le stesse note: per il fisco, con la pubblicazione dell’elenco dei redditi dichiarati dai contribuenti italiani nel 2005; per l’etica, con le nuove linee guida della legge 40 che aprono le porte alla diagnosi preimpianto a finalità eugenetica.
In sé, pubblicare i dati dei contribuenti non è nè illecito moralmente riprovevole. La legge lo consente. La natura dell’atto fiscale pure. L’imposta, infatti, non è faccenda privata tra cittadino e stato, è atto supremamente collettivo. Se lo stato non è un’ipostasi autosufficiente ma l’esito del contratto sociale tra i cittadini, se questi sono soci nello stato, allora è diritto di ciascuno sapere quanto l’altro concorra al costo sociale e dovere di ciascuno farlo sapere. E i portoghesi sociali vanno giustamente puniti, anche grazie alla segnalazione dei loro consociati.
Perciò, in teoria, nulla di male, nulla di scandaloso nel mettere su internet i dati delle dichiarazioni, cosi come lo sono quelli del catasto o delle società commerciali. La privacy si applica a altri temi. Detto questo, non si può essere ipocriti o astratti e non capire che in Italia c’è qualcosa che non funziona nel rapporto tributario, e che ciò che dovrebbe essere normale in realtà non lo è. Provo ad essere sintetico. In Italia, grosso modo fino alla fine della prima repubblica, è valso un patto sociale non scritto il cui sinallagma era più o meno questo : io, stato, non ti tartasso, nel senso che accetto un grado elevato di infedeltà (pur sotto il roboare delle grida fiscali e delle aliquote) ma tu, cittadino, accetti servizi pubblici sgangherati e carenti. Peraltro, chi stava fuori da questa equazione, il lavoratore dipendente, si lamentava sì, ma accettava alla fine lo status quo perchè aveva mille garanzie e mille protezioni compensative: dall’inamovibilità del posto di lavoro alla pensione (cosa che gli autonomi avevano in misura ridicola).
Con il trattato di Maastricht e poi con l’adozione dell’euro, l’Italia ha lasciato che la sua politica finanziaria finisse nella morsa del rigore monetario della Bundesbank e della BCE e di uno stretto vincolo di bilancio (il famoso 3% di deficit). E’ entrata in questo sistema con un debito pubblico pazzesco (circa 1,2 volte il pil), il che l’ha resa una sorvegliata speciale degli occhiuti e politicamente irresponsabili burocrati di Bruxelles.
La via per non rompere il patto sociale era strettissima: efficientizzazione dei servizi pubblici, a parità di costi, e crescita economica spinta, per ridurre quel maledetto rapporto tra debito e pil via incremento del pil e non via riduzione, in cifra assoluta, del debito, cosa politicamente impossibile. Il primo obiettivo è stato sostanzialmente mancato, sotto i governi di destra e sinistra. Il consociativismo pervasivo della società italiana, la cultura del lavoro come mero diritto e non come dovere, lato oscuro del sindacalismo, ha impedito tale risultato (Alitalia docet). Sanità, assistenza, trasporti, giustizia, sicurezza, scuola, cura dell’ambiente urbano, tutto ciò che il cittadino riconduce alla pubblica amministrazione son rimasti, con lodevoli eccezioni (ad esempio quello della sanità lombarda), più o meno quelli dell’ancien regime.
Quanto alla crescita economica c’è stata, ma ha riguardato le imprese spalancate alla competizione internazionale che, investite dallo tzunami combinato dell’euro e della concorrenza asiatica, sono prima sopravvissure aumentando il livello qualitativo dei prodotti e poi si sono rafforzate, trovando, grazie alla globalizzazione e allo sviluppo degli stessi mercati emergenti, nicchie di mercato affamate dell’eccellenza italiana. Questa quota di crescita, tuttavia, ha avuto come controaltare la stagnazione e forse la recessione delle imprese che, invece, lavorano per il mercato domestico, che vivono sui consumi e sulla spesa pubblica interna, e che non hanno tenuto il passo, causa l’erosione del potere di acquisto delle famiglie dovuto al dopo euro e la mancata attuazione di un piano di opere pubbliche che allineasse l’Italia agli standard europei.
Stretti nella morsa europea, i governi italiani non hanno potuto fare altro che lavorare sul gettito senza che ai sacrifici della gente corrispondesse un pari aumento dei servizi collettivi. Già il Visco del primo governo Prodi lo aveva fatto da par suo. Le elezioni del 2001 sono state vinte dal centrodestra sul tema delle tasse. Tremonti, nel secondo governo Berlusconi, si è trovato di fronte allo stesso problema. Ma lui è stato molto più abile di Visco. Nella prima parte del mandato, quella piagata dal post 11 settembre, ha sostenuto le entrate vendendo indulgenze (cioè facendo condoni) il che, all’italiano medio, sembra una contropartita accettabile, in quanto gli dà tranquillità. Nella seconda parte ha iniziato a mettere a regime gli studi di settore, strumenti statistici che, in qualche modo, catastalizzano le basi imponibili dei piccoli imprenditori ed autonomi. Il suo tentativo era giusto: semplificazione, tranquillità fiscale contro un aumento governato del gettito. Era il concordato fiscale di massa, lo strumento di governo dell’anarchia imprenditoriale italiana, il popolo irrefrenabile e incontrollabile delle partite iva. E infatti il gettito, nell’ultima fase del governo Berlusconi II, aveva preso a salire.
L’ultimo Visco si è trovato a cavalcare l’onda di questo gettito montante fra l’altro in momento di buona congiuntura. Invece di seguire una linea moderata di riduzione delle aliquote grazie alle crescita degli imponibili, è andato giù come un fabbro: ha criminalizzato settori, categorie e ceti (in specie l’edilizia, che è uscita distrutta dalla sua cura ben prima dell’arrivo della crisi dei sub prime – ma che avrà mai la sinistra contro chi fa case?); ha calcato la mano all’inverosimile sugli studi di settore, spingendoli ad essere non una catastalizzazione moderata dei redditi degli autonomi ma una forma di vessazione arbitraria, idonea a creare base imponibile irragionevole ed inesistente; ha alzato le aliquote per i ceti medi/medio alti; ha infine creato, in puro stile sovietico, un clima di terrore fiscale, facendo della lotta all’evasione una delle bandiere dell’azione di governo e alimentando quell’odio sociale che è stato il vero collante ideologico della sinistra pre veltroniana. Peraltro, lo scalcagnato governo Prodi, quello che stava sù con i voti dei senatori a vita e che aveva nel suo seno una decina di partiti e partitini, aveva bisogno di soldi per tenere buoni tutti, oltre che per controllate il deficit. Invece di usare il tesoretto per ridurre il debito o ridurre le tasse, lo ha usato per comprare consenso.
In questa luce, la pubblicazione delle liste non è l’atto normale, burocratico, di una evoluta democrazia fiscale. E’ l’ultimo greve colpo di un potere che ha usato lo scandalo fiscale come strumento di controllo sociale. Non a caso segue di poco e fa il paio con un’altra pubblicazione, quella dei signori italiani che risulterebbero avere o avere avuto conti in Liechtenstein. Pubblicazione gratuita, illegale, immorale. Gratuita, perchè non aggiunge uno iota al problema giudiziario della persecuzione di questi soggetti con le garanzie di un giusto processo. Illegale perchè quei dati sono stati acquisiti con un atto di ricettazione, violando le leggi di uno stato sovrano, ancorchè piccolo e perchè sputtanare persone non note senza uno straccio di prova vera è un reato, si chiama diffamazione a mezzo stampa. Infine è immorale, perchè quella pubblicazione serviva solo a creare scandalo fiscale e ad alimentare l’odio sociale, non ad altro. Ed infatti, se c’è qualcuno che ha fatto felici gli svizzeri, i sanmarinesi e i liechtensteniani è stato proprio Visco : con la sua brutale politica ha creato le code davanti alle loro banche. Mentre Tremonti, con il tanto criticato scudo fiscale, il condono sui risparmi all’estero, quelle code le aveva assai rarefatte. Con i servizi pubblici e le infrastrutture che abbiamo, con l’ipoteca sindacalistica che frustra ogni tentativo di efficientizzazione, il sinallagma fiscale sarà ancora una volta la croce del nuovo governo. I cittadini infatti, con le difficoltà che già hanno, sentono di buttare troppo del loro reddito nella fornace e ciò li spinge ad evadere ben più di quanto sia fisiologico.
Pubblicare liste allora serve ben a poco, se non ad alimentare il voyerismo fiscale che è il surrogato impotente della vera giustizia fiscale. Fumo negli occhi, rumore nelle orecchie di coloro che hanno ormai il problema della quarta e forse anche terza settimana. Speriamo che il nuovo governo operi fattivamente, in silenzio e senza inutili scandali, nella creazione di un nuovo equilibrio, in cui le imposte siano il giusto prezzo del privilegio della cittadinanza. Le liste allora diverranno routine noiosa, come lo è la lista delle spese e dei riparti che ogni anno ci manda il nostro amministratore di condominio.