Presidente Testa, siamo d’accordo nel dire sì al nucleare. Qual è, però, il posto che il nucleare deve avere nel quadro di una politica energetica di ampio respiro, che non può fare a meno dei combustibili fossili ma che guarda alle fonti rinnovabili?

Il problema è rappresentato dai combustibili fossili, per due motivi: ragioni ambientali e ragioni legate alla geopolitica del petrolio, sia in termini di costo che in termini di sicurezza. Ho citato molto spesso una frase di Sarkozy: «Il nucleare non è la soluzione dei problemi, ma senza nucleare non c’è soluzione». Se noi oggi fermassimo gli impianti nucleari che sono in funzione nel mondo, avremmo un aumento drammatico delle emissioni in atmosfera e anche uno shortage di energia. Ritengo dunque che non possiamo fare a meno di nessuna fonte: dei fossili, delle fonti rinnovabili, dell’efficienza energetica e del nucleare. Quest’ultimo può dare il suo contributo: fornendo, ad esempio, il 7% del fabbisogno totale di energia e il 15-16% del fabbisogno di energia elettrica. È una quota modesta, ma non vedo ragioni per rinunciare; piuttosto si dovrebbe incrementare questa quota.
 



L’Italia ha fatto una precisa scelta di campo nel 1987, di cui paga ancora oggi le conseguenze. Una scelta data forse da un problema che allora non si poneva, quello del clima, e anche da pregiudizi ideologici. Che cosa insegna quella lezione alla luce dell’oggi e, nel caso della sua posizione personale, che considerazioni si sente di fare?



La situazione negli anni ’80 era molto diversa da quella di oggi, per diversi motivi, compreso il fatto che avevamo imprese energetiche molto più rigide, meno innovative di quelle di oggi. Quel referendum fu il frutto sicuramente di un pregiudizio anti-nucleare, poi dell’incidente di Cernobyl, e di una certa “oscurità” che avvolgeva nel complesso l’intero problema delle politiche energetiche. Non se ne sapeva nulla. Avremmo forse potuto procedere con un po’ più di calma; ad esempio, se dovessi decidere adesso per allora non avrei chiuso la centrale di Caorso, perfettamente funzionante. Oltretutto quel referendum non obbligava a chiudere Caorso.



Rispetto al problema dei «muscoli deboli» di cui Lei accenna nel suo libro (l’opinione dell’allora ministro Bersani, secondo il quale l’Italia non ha ancora “il fisico” per questo impegno), di quale debolezza si tratta? Politica, tecnica o entrambe?

Il mio libro non parla del nucleare in Italia, è una riflessione generale sul contributo che l’energia nucleare può dare ai problemi energetici e climatici. Non ho dedicato molto spazio alla necessità di portare il nucleare in Italia, ma per coerenza mi chiedo perché, se si fa nel resto del mondo, non si faccia anche in Italia. L’ultimo capitolo del libro si intitola «Il problema non è il nucleare, il problema è l’Italia», e faccio riferimento ai «muscoli deboli», che sono di due tipi: il primo è relativo al fatto che abbiamo perso il sistema di competenze che girava intorno al nucleare – e quando parlo di competenze non intendo solo gli ingegneri ma anche i sistemi di controllo nazionali: c’era un organismo che si occupava della sicurezza nucleare oggi ridotto a nulla, per cui bisogna ricostruire il sistema autorizzativo presente in tutti i paesi che hanno il nucleare. Per quanto riguarda le debolezze tecniche ne vedo di meno, perché oggi l’Enel ha quasi il 15% della sua energia fatta dal nucleare e si possono fare accordi internazionali per avere a disposizione le stesse tecnologie in costruzione nelle varie parti del mondo. Poi c’è una debolezza politico-istituzionale, rappresentata dal caso Italia, per cui fino a poco tempo fa di nucleare non si poteva parlare. Siamo davanti a un quadro politico così frammentato che in certe situazioni le forze politiche fanno opposizione a se stesse, dicono una cosa a Roma, un’altra in Lombardia o in Sicilia. L’opinione pubblica non si sente rassicurata da questo fatto. E c’è anche una debolezza istituzionale, ossia quadri autorizzativi estremamente frammentati. Qualcuno obietta che per fare una centrale nucleare ci vogliono dieci anni. Ma non è il tempo necessario in Italia anche per fare un rigassificatore? Da piccolo imprenditore delle fonti rinnovabili, so che per fare una centrale idroelettrica da un MegaWatt non si impiegano meno di dieci anni, per cui non è un problema del nucleare ma dell’Italia. C’è inoltre un atteggiamento dell’opinione pubblica fondato su una posizione di rifiuto delle novità, dovuto a elementi di conservatorismo nella struttura sociale italiana.
 

Le faccio la domanda che si pongono molti italiani quando si parla di nucleare: lei andrebbe ad abitare vicino ad una centrale nucleare? A quali condizioni?

A condizione che chi la costruisce, la costruisca bene. In Francia la costruzione dell’ultima centrale in Normandia è stata oggetto di una sorta di gara pubblica: due o tre comuni si sono candidati, spinti dai benefici che la centrale comporta in termini di remunerazione. Non credo che andare ad abitare vicino ad una centrale nucleare sia più pericoloso che girare per Roma in motorino.
 

Che strategie di approccio e di comunicazione occorre seguire per risolvere, o almeno attenuare, la ben nota sindrome Nimby (not in my back yard ovvero «non nel mio cortile»), non solo per il nucleare ma per tutte le infrastrutture, grandi o piccole che siano?

Sono necessarie istituzioni autorevoli che spieghino le cose in modo chiaro, senza trucchi o sotterfugi, e probabilmente anche un sistema di compensazioni ben fatto. Se devo sacrificare un pezzo del mio territorio e faccio un servizio alla collettività, forse è giusto che ne riceva una compensazione chiara e trasparente. Deve essere chiaro che fare degli impianti – o opere di altro tipo – significa contribuire allo sviluppo sociale e civile di quella comunità.

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