I primi interventi del ministro Tremonti attestano la volontà del nuovo esecutivo di dare seguito alle promesse elettorali. La parziale detassazione degli straordinari percepiti dai lavoratori con redditi inferiori ai 30 mila euro e l’abolizione dell’ICI sulla prima casa, escluse le case di lusso, alleggeriranno gli impegni fiscali di milioni di italiani e incideranno in maniera positiva sui consumi. La sostenibilità di tale manovra, il cui costo è di circa 4 miliardi di euro, sarà garantita dal definanziamento delle misure “elettorali” del decreto mille proroghe, approvato nel febbraio scorso, e da altre misure che verranno finalizzate il prossimo mese e che comporteranno maggiori aggravi fiscali per quelle imprese (banche e aziende petrolifere) che realizzano i cosiddetti “profitti da congiuntura”.
Ci si chiede, però, quali dovranno o potranno essere gli interventi strutturali che consentiranno di avviare un percorso di crescita in grado di invertire le performance degli ultimi anni, che hanno visto il nostro Paese crescere mediamente dello 0,9% in meno rispetto all’Eurozona, determinando un decremento del Pil procapite dal 99% della media Eurolandia del 1991 al 90,5% del 2007.
La crescita del Pil procapite è determinata sia dall’accumulazione del capitale fisico e umano, sia da fattori tecnologici e istituzionali che influiscono sui primi, determinandone una più efficace combinazione. Nel 2007, la quota del Pil che remunera il fattore lavoro, incluso il lavoro autonomo, è stata pari al 77,6% (74,8% nel 1997), il che induce a ritenere che la crescita economica e la correlata crescita dei salari reali, necessaria a migliorare il benessere degli individui e a rendere disponibili maggiori quote di reddito per i consumi, sia ottenibile solo attraverso la crescita della produttività e la riduzione del cuneo fiscale e contributivo che rende mediamente doppio il rapporto fra il reddito lordo e il reddito netto percepito dal lavoratore.
Sul fronte della produttività, investimenti più redditizi incentivano l’accumulazione di capitale e generano un circolo virtuoso che induce, in presenza di lavoratori più istruiti, una maggiore disponibilità di capitale per addetto e uno stock di conoscenza privata che va ad aumentare lo stock aggregato di conoscenza pubblica. E la storia economica insegna che le istituzioni politiche svolgono un ruolo importante nel processo di modernizzazione di un Paese, in quanto ne influenzano la capacità di accumulare, di innovare, adottare nuove tecnologie e riorganizzarsi di fronte al cambiamento tecnologico, dando forma alle politiche economiche che promuovono o ostacolano la crescita.
Se vogliamo allora restituire al nostro Paese standard di crescita economica apprezzabili, è necessario che tutte le istituzioni politiche, anche quelle che fino ad oggi hanno avuto interesse a sostenere le rendite di posizione dei gruppi organizzati, si impegnino a rimuovere le barriere che impediscono di adottare quelle politiche sussidiarie che assicurino servizi alla persona e incoraggiano l’accumulazione di conoscenze e la loro protezione al pari dei diritti di proprietà. In altre parole, come i diritti di proprietà assicurano l’accumulazione di capitale, il sostegno delle politiche di sussidiarietà, applicate alla conoscenza, ne favoriscono l’accumulazione necessaria allo sviluppo economico.
Sono convinto in tal senso, anche confortato dai suoi scritti, che il ministro dell’Economia, oltre a perseguire politiche di incentivo a nuovi investimenti da parte delle imprese, favorirà e migliorerà la qualità di quell’efficiente strumento di democrazia fiscale rappresentato dal 5 per mille. Destinare il 5 per mille, o maggiori forme di contribuzione, ad una nuova governance dei beni sociali, quali scuola, università, sanità, che preveda interventi volti a migliorare l’efficacia e le performance anche attraverso una loro valutazione da parte di organismi indipendenti, si può conciliare con una forte riduzione dei costi per lo Stato e con una maggiore giustizia sociale.
Sul fronte della riduzione della pressione fiscale, ci troviamo a parlare di una vera e propria emergenza. La Banca Centrale Europea ha pubblicato, nel 2007, uno studio da cui emerge che in Italia, la porzione di reddito sottratta dal settore pubblico per tasse, imposte e contributi pensionistici è pari in media al 65,8%. Una percentuale inaccettabile, la cui significativa riduzione impone l’esatta individuazione dei centri di spesa da tagliare, degli sprechi da evitare e più in generale una riforma strutturale che ci conduca ad un nuovo modello di welfare. Ed in tal senso siamo confortati da un recente studio dell’Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo (Oecd), che ha comparato l’efficienza della spesa pubblica di ventitré Paesi aderenti. Ebbene, questo studio ha collocato il nostro Paese agli ultimi posti nella classifica dell’efficienza della pubblica amministrazione, con uno scostamento pari al 15% rispetto alla media e pari all’11% rispetto a Francia e Germania. Se solo ci collocassimo al medesimo livello dei due Paesi europei, il risparmio di spesa, pari 5 punti percentuali di Pil, sarebbe di oltre 70 miliardi di euro annui.
Si pensi che il riordino del sistema di tassazione delle persone fisiche, che preveda una no tax area, un sistema di tre aliquote, con un’aliquota massima del 33%, costerebbe circa 30 miliardi di euro in termini di gettito, mentre una riduzione delle imposte sul reddito delle società al 20%, compensata dall’abolizione dei trasferimenti alle imprese, costerebbe 6 miliardi di euro (si veda a tal fine lo studio dell’Istituto Bruno Leoni del febbraio 2008).
Numeri alla mano, l’obiettivo di un pareggio al 2011 auspicato dall’esecutivo, pur in presenza di una crescita vicina allo zero è ambizioso ma assolutamente realizzabile, ma per renderlo strutturale è necessario coniugare sussidiarietà, una correlata nuova forma di welfare ed economia della conoscenza.