Dieci anni fa, quando il prezzo del petrolio oscillava tra i 10 e i 12 dollari al barile, l’autorevole Economist annunciò l’inizio di un’era di energia a basso costo. Al momento, le prospettive sono opposte e il ministro del petrolio della Libia – tra gli altri – sostiene che il petrolio arriverà presto a 200 dollari al barile, una previsione che ovviamente speriamo essere errata.
Innanzitutto, è necessario ricordare che domanda ed offerta di petrolio sono – come si dice in gergo – rigide. Per capire il punto, consideriamo la produzione di greggio. L’offerta è rigida se non cambia molto in funzione del prezzo. Nel caso del petrolio ciò avviene in quanto la capacità produttiva esistente è quasi completamente sfruttata. I produttori non possono rispondere ad un aumento del prezzo con un incremento dell’estrazione, come invece avveniva in passato: non ne hanno praticamente i margini. Fino all’inizio di questo decennio, la situazione era ben diversa: infatti per limitare l’incremento dell’offerta (anche – ma non solo – in risposta ad aumenti del prezzo) era necessario un accordo tra i produttori, accordo che veniva concluso sotto l’egida dell’OPEC. Per capire l’importanza di un’offerta rigida pensiamo al caso estremo, quello di una offerta fissa, cioè completamente rigida nel gergo degli economisti. In questo caso, sono i compratori a determinare il prezzo, disputandosi il prodotto, un po’ come avviene in un’asta.
Domanda ed offerta contano molto, quindi, e non sembrano al momento essere particolarmente influenzate da manovre monopolistiche del tipo di quelle organizzate in passato dall’OPEC.
Alcuni importanti produttori sono soggetti a pesanti tensioni politiche o si trovano in aree calde del pianeta: è sufficiente che un gruppo di guerriglieri metta in atto un attacco ad un oleodotto in Nigeria, perché il prezzo del greggio salga di qualche dollaro. In questo caso infatti qualche acquirente decide di proteggersi dal rischio di interruzioni nella produzione, aumentando le sue riserve, e con un’offerta rigida un piccolo incremento di domanda è sufficiente per far alzare il prezzo.
Un’elevata pressione fiscale sul petrolio ha conseguenze importanti anche per le prospettive future del mercato, infatti scoraggia le prospezioni, in una fase in cui lo sviluppo di nuovi campi petroliferi è lento. L’economia mondiale sta infatti ancora scontando gli anni di “vacche grasse energetiche” terminati quattro o cinque anni fa. Con il petrolio a dieci (o anche a trenta) dollari al barile, non aveva molto senso iniziare nuove prospezioni, anche perché – ovviamente – i campi petroliferi più facilmente raggiungibili sono già stati sfruttati, e quindi i costi della ricerca sono elevati.
In conclusione, non è detto che il prezzo del greggio continui ad aumentare, anche se non mi aspetto riduzioni rilevanti, salvo il caso di recessioni globali che riducano la domanda. Prezzi elevati rendono appetibili investimenti in ricerca, i quali però non possono produrre effetti concreti sui mercati prima di qualche anno. Se in questo lasso di tempo la domanda non aumenterà troppo, perché le industrie di Cina ed India diventeranno più efficienti nell’uso dell’energia, e perché i paesi più avanzati punteranno su fonti alternative (soprattutto sul nucleare) oltre che sul risparmio energetico, potremo raggiungere un equilibrio ragionevole.