Dieci anni fa, quando il prezzo del petrolio oscillava tra i 10 e i 12 dollari al barile, l’autorevole Economist annunciò l’inizio di un’era di energia a basso costo. Al momento, le prospettive sono opposte e il ministro del petrolio della Libia – tra gli altri – sostiene che il petrolio arriverà presto a 200 dollari al barile, una previsione che ovviamente speriamo essere errata.



Per capire un po’ di più come funzioni il mercato del petrolio – e perché sia difficile formulare previsioni attendibili – dobbiamo ricordare alcuni elementi che ne caratterizzano la struttura.

Innanzitutto, è necessario ricordare che domanda ed offerta di petrolio sono – come si dice in gergo – rigide. Per capire il punto, consideriamo la produzione di greggio. L’offerta è rigida se non cambia molto in funzione del prezzo. Nel caso del petrolio ciò avviene in quanto la capacità produttiva esistente è quasi completamente sfruttata. I produttori non possono rispondere ad un aumento del prezzo con un incremento dell’estrazione, come invece avveniva in passato: non ne hanno praticamente i margini. Fino all’inizio di questo decennio, la situazione era ben diversa: infatti per limitare l’incremento dell’offerta (anche – ma non solo – in risposta ad aumenti del prezzo) era necessario un accordo tra i produttori, accordo che veniva concluso sotto l’egida dell’OPEC. Per capire l’importanza di un’offerta rigida pensiamo al caso estremo, quello di una offerta fissa, cioè completamente rigida nel gergo degli economisti. In questo caso, sono i compratori a determinare il prezzo, disputandosi il prodotto, un po’ come avviene in un’asta.



In tale contesto, se il prodotto è valutato molto, il prezzo non può che essere alto, e questo è purtroppo il caso nostro. La domanda di petrolio è forte soprattutto per effetto dello sviluppo di alcune economie emergenti, in primis Cina e India, ma anche Brasile, Russia e altre. Si stima infatti che negli ultimi anni, il 90% dell’incremento di domanda di energia a livello mondiale provenga da paesi emergenti. Nel mondo industrializzato la domanda di energia, per unità di produzione, cala, anche se lentamente; il volume totale di produzione, il Pil, tuttavia aumenta e ciò contribuisce ad un aumento della domanda. Per avere un’idea, negli Stati Uniti la domanda di energia – tra il 1980 ed il 2007 – si è ridotta, per dollaro di prodotto, del 42%. Tuttavia il Pil è un più che raddoppiato, e la domanda complessiva di energia è dunque aumentata, anche se non in modo spettacolare.

Domanda ed offerta contano molto, quindi, e non sembrano al momento essere particolarmente influenzate da manovre monopolistiche del tipo di quelle organizzate in passato dall’OPEC.



Purtroppo, la situazione dell’offerta di greggio non è particolarmente brillante, dal punto di vista di noi compratori.

Alcuni importanti produttori sono soggetti a pesanti tensioni politiche o si trovano in aree calde del pianeta: è sufficiente che un gruppo di guerriglieri metta in atto un attacco ad un oleodotto in Nigeria, perché il prezzo del greggio salga di qualche dollaro. In questo caso infatti qualche acquirente decide di proteggersi dal rischio di interruzioni nella produzione, aumentando le sue riserve, e con un’offerta rigida un piccolo incremento di domanda è sufficiente per far alzare il prezzo.

Inoltre la produzione di alcuni esportatori, quali Venezuela, Messico e Russia si sta riducendo. La causa principale non è l’esaurimento degli stock di greggio: le motivazioni sono soprattutto politico-economiche. Il caso della Russia è particolarmente evidente: sommando dazi sull’esportazione, imposte sulle società, imposte sui redditi dei loro dipendenti ecc, lo Stato si appropria di circa il 92% del prezzo del greggio. Ciò disincentiva la produzione, soprattutto nelle situazioni più difficili, come quelle dei campi petroliferi siberiani.

Un’elevata pressione fiscale sul petrolio ha conseguenze importanti anche per le prospettive future del mercato, infatti scoraggia le prospezioni, in una fase in cui lo sviluppo di nuovi campi petroliferi è lento. L’economia mondiale sta infatti ancora scontando gli anni di “vacche grasse energetiche” terminati quattro o cinque anni fa. Con il petrolio a dieci (o anche a trenta) dollari al barile, non aveva molto senso iniziare nuove prospezioni, anche perché – ovviamente – i campi petroliferi più facilmente raggiungibili sono già stati sfruttati, e quindi i costi della ricerca sono elevati.

Un ultimo aspetto riguarda la possibile attività speculativa sul lato della domanda. Alcuni analisti hanno infatti attribuito ad acquisti “speculativi” di greggio l’ultima ondata di aumenti. Secondo questo punto di vista, i bassi tassi di interesse favoriscono la speculazione, in quanto riducono il costo delle immobilizzazioni. Personalmente, sono molto scettico a riguardo dell’importanza della speculazione: i fondi di investimento non comprano fisicamente petrolio. Al contratto comprano futures, cioè diritti all’acquisto di greggio nel futuro. Questi diritti vengono poi rivenduti agli acquirenti “fisici” nell’imminenza della scadenza del contratto. Quindi i fondi non aumentano effettivamente la domanda corrente di greggio. Inoltre, anche chi accumula fisicamente petrolio, lo fa ritenendo che i prezzi futuri saranno significativamente più alti; aumenta quindi la domanda corrente di petrolio, riducendo però quella futura. Nell’ottica di medio periodo l’effetto può persino essere positivo, in quanto riduce la volatilità dei prezzi nel tempo.

In conclusione, non è detto che il prezzo del greggio continui ad aumentare, anche se non mi aspetto riduzioni rilevanti, salvo il caso di recessioni globali che riducano la domanda. Prezzi elevati rendono appetibili investimenti in ricerca, i quali però non possono produrre effetti concreti sui mercati prima di qualche anno. Se in questo lasso di tempo la domanda non aumenterà troppo, perché le industrie di Cina ed India diventeranno più efficienti nell’uso dell’energia, e perché i paesi più avanzati punteranno su fonti alternative (soprattutto sul nucleare) oltre che sul risparmio energetico, potremo raggiungere un equilibrio ragionevole.