L’inefficienza della Pubblica Amministrazione riaffiora periodicamente nel dibattito sui principali organi di stampa contendendo lo spazio di volta in volta ad altri temi di sicuro richiamo quali delitti familiari, truffe, bisticci e pasticci politici e, per non farci mancare nulla, vicende di cronaca rosa. Il caso del dipendente X dell’amministrazione Y assume in questo modo come parte di un rito collettivo di scandalo e biasimo, la funzione di liberare per qualche giorno la rabbia trattenuta, grazie a una sequela di interventi rafforzati dai chilometrici blog di sostegno. Personificare il “male”, infatti, consente di collocarlo al di fuori e oltre le responsabilità collettive e in primo luogo politiche ed amministrative per poter svoltare pagina e proseguire come se niente fosse. Sebbene la scarsa capacità della Pubblica Amministrazione nel suo insieme (Governo centrale, enti locali, scuola, università sanità pubblica, ecc.) di fornire quel supporto regolativo e di azione e propulsione richiesto dai nuovi modelli di regolazione dell’ambito pubblico sia concordemente uno dei problemi strutturali che rallenta lo sviluppo dell’Italia rispetto ai nostri naturali concorrenti, la strada dell’impersonificazione del problema sembra rappresentare l’unica risposta alla quale dare eco.
Vi sono diverse ragioni per cui questo accade. In primo luogo, la semplificazione del problema consente di non andare alla radice di un modello di organizzazione complessiva dell’attività pubblica che si è costruito per aggregazioni successive dentro tendenze spesso contrapposte tra accentramento e decentramento, governo diretto e regolazione, frutto di svolte politiche generalmente non meditate, ma attuate per pura contrapposizione. In sostanza, l’impressione è che sia diffusa la convinzione che per cambiare sia sempre necessario rovesciare la prospettiva precedente, in modo da dimostrare la propria originalità o per i più maliziosi per giustificare nuovi e diversi investimenti senza ovviamente disinvestire quello che già era stato impegnato per andare nella direzione opposta. In secondo luogo, ed è il tema su cui mi voglio soffermare, esiste una generale abitudine nel nostro Paese a ritenere che i disegni di riforma della Pubblica Amministrazione debbano essere affidati a chi ha competenze esclusive di natura giuridica o ancor più amministrativa. Ne deriva una grande enfasi sulla qualità interna del modello di regolazione che si costruisce sulla base di una visione logico-deduttiva e dall’alto, dimenticando il nesso necessario con i dati gestionali che solo un’attenta valutazione e un’adeguata consapevolezza di come le organizzazioni realmente funzionano possono garantire. In questa prospettiva, il tema non si può certo esaurire con l’individuazione dei “fannulloni” che peraltro è possibile anche oggi, laddove ci sia un’amministrazione che ha gli strumenti di misura e verifica e il coraggio di assumere decisioni anche drastiche uscendo dal paradosso consociativo tra dirigenza e sindacato che spesso regna. Il problema non è nel garantismo del contratto di lavoro dei dipendenti pubblici, ma nell’insieme di limiti che non consentono una reale gestione delle risorse umane. I limiti riguardano ad esempio l’utilizzo di un meccanismo di selezione in ingresso che non ha quasi nessuna attinenza con il contenuto delle attività da svolgere quale il concorso che costringe a misurare il possesso di nozioni che spesso non rappresentano l’elemento centrale della prestazione lavorativa richiesta. Lo stesso si può dire per i percorsi di carriera e di sviluppo o mobilità interna che sono generalmente ricondotti a procedure valutative formalmente aperte a tutti o quasi, nate per garantire equità, ma che finiscono in realtà per prestarsi ancora di più a discriminazioni perché la decisione collegiale non consente di identificare responsabilità individuali di chi dirige.
Sono questi i nodi strutturali che vanno radicalmente risolti, ma non è un caso se gli interventi che pure ci sono stati (si pensi alle Bassanini) hanno riguardato meccanismi meno rilevanti quali la previsione di indennità di funzione o di risultato che, lasciate alla libera applicazione interna, hanno nella generalità dei casi generato meccanismi di distribuzione negoziata o a pioggia. A ben vedere, il problema risiede nella condiscendenza verso un modello organizzativo della Pubblica Amministrazione che evidenzia (poco) la responsabilità politica, ma nasconde quella amministrativa in un pasticcio di processi decisionali collettivi dei quali nessuno può realmente essere chiamato a rispondere. Per concludere, quando il famoso dipendente X viene additato come fannullone, l’istante dopo che è stato sanzionato, una buona amministrazione dovrebbe identificare con chiarezza chi lo ha assunto, quando e perché ha smesso di lavorare, per quanto tempo questo è accaduto senza che il suo responsabile diretto facesse nulla e procedere a rivedere tutti quei processi, quelle regole, quelle abitudini e quei (dis-)valori interni che lo hanno reso possibile. Ridare responsabilità decisionale ai dipendenti pubblici significa anche compiere il primo passo verso una riqualificazione del loro contributo che è oggi genericamente accomunato da uno status sociale basso e da un diffuso pregiudizio basato su pochi e specifici casi estremi. Significa in fondo ridare dignità al lavoro e in questo modo riconoscere con rispetto l’esistenza di tante persone che lavorano come e più che nel privato, nonostante i modelli di organizzazione e di direzione con cui si confrontano ogni giorno.