L’introduzione delle 35 ore in Francia esattamente dieci anni fa segnò una scelta in forte controtendenza da parte del governo socialista. Il dibattito che ne seguì attraversò l’Europa ed ebbe in Italia una forte eco nelle posizioni della sinistra che sostenne nel primo governo Prodi la necessità di una riforma analoga. La riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore per legge, comporta a parità di altre condizioni un aggravio del costo del lavoro per le imprese francesi poiché è da questa quota che scattano gli oneri aggiuntivi per gli straordinari. La riforma aveva l’ambizione di ridurre la disoccupazione e promuovere un mutamento dell’organizzazione del lavoro. Il provvedimento in realtà ha avuto una genesi progressiva poiché è stato attuato attraverso due leggi. La prima (Aubry 1) emanata nel 1998 ha consentito di accedere a delle forme di sostegno pubblico per compensare l’accresciuto costo orario e ha quindi favorito un processo di ricerca di soluzioni organizzative innovative. La seconda emanata nel 2000 (Aubry 2) è la legge che ha effettivamente definito il nuovo limite orario settimanale, tuttavia calcolabile su base annua.
In questi giorni a Parigi, dentro l’UMP, il partito del Presidente Sarkozy si apre un dibattito sull’opportunità o meno dell’eliminazione delle 35 ore in favore di meccanismi che lascino maggiore libertà alla contrattazione tra le parti nel riconoscimento della difficoltà di applicazione a tutti i settori indipendentemente dalle diversità dei processi produttivi e competitivi specifici. Tuttavia, i risultati reali della Aubry 2 segnalano conclusioni sorprendenti. Un articolo di Gubian e colleghi, apparso nel 2004 su Economie et Statistique ha rivelato come il provvedimento abbia concorso ad un incremento dell’occupazione vicino al 7% e nel contempo della produttività oraria attorno al 5% contribuendo inoltre alla moderazione salariale. L’insieme dei dati disegna quindi un successo del provvedimento, ma come si spiega allora l’indirizzo prevalente verso una sua limitazione se non cancellazione? Oltre a ragioni squisitamente politiche, va segnalato come il medesimo studio evidenzi la presenza di effetti sistemici che devono accompagnare un provvedimento di riduzione dell’orario di lavoro, estendendosi ai salari, ai costi di produzione e all’organizzazione del lavoro. E’ solo se ci si incammina su un processo di cambiamento organizzativo complessivo che gli effetti positivi si manifestano senza comportare una riduzione della competitività delle imprese. Ne deriva la possibilità che l’effetto complessivo nasconda situazioni differenziate tra settori. Laddove le imprese hanno saputo e potuto modificare i modelli di organizzazione del lavoro, l’impatto delle Aubry 1 e 2 è stato addirittura positivo, mentre in altri ambiti (pensiamo a settori con tecnologia matura e bassa marginalità del prodotto) questo può non essere avvenuto.
Da un punto di vista astratto, tuttavia, è opportuno sottolineare come in condizioni di costo del lavoro medio elevato quali quelle delle grandi economie europee, le differenze di efficacia del provvedimento segnalino lo spartiacque tra i settori nei quali è ancora efficiente essere presenti direttamente e quelli dove la capacità competitiva è comunque destinata ad un peggioramento progressivo. L’incremento della produttività è l’unico strumento di competizione oggi disponibile poiché la manovra sul costo del lavoro non può comunque garantire la possibilità di mantenere competitività rispetto a paesi i cui costi sono infinitamente più contenuti. Dovendo assicurare comunque per ragioni economiche e politiche livelli adeguati di occupazione, la riduzione dell’orario di lavoro non sembra una strada irrazionale a patto che si possa fare riferimento ad un sistema di relazioni sindacali evoluto e a imprese decise ad incamminarsi lungo la strada dell’innovazione organizzativa per assicurare un deciso incremento della produttività al quale potrebbe accompagnarsi una modernizzazione del mondo del lavoro in grado di assorbire capitale umano più qualificato. La diffusa presenza di imprese di grandi dimensioni in Francia ha certamente favorito questo processo, tuttavia anche il tessuto della media impresa italiana sta dando importanti segnali di impegno, ma non ha le caratteristiche per poter assorbire un provvedimento simile. La risposta francese, quindi, segnala l’obiettivo di ogni provvedimento di ristrutturazione del mondo del lavoro e della produzione, ovvero l’incremento della produttività oraria, ma la strada italiana deve passare per un altro processo in assenza degli ingredienti necessari. Qualsiasi azione di governo dovrà evitare di cadere nella trappola della pura e semplice riduzione del costo dei fattori produttivi. Interventi come il cuneo fiscale non sono in grado di colmare il gap del costo del lavoro rispetto a gran parte dei nostri concorrenti che provengono da economie in sviluppo, ma rischiano di spostare ancora un po’ nel tempo l’orizzonte di una presa di coscienza collettiva da parte di imprenditori e sindacato della necessità di porre mano ai modelli di organizzazione del lavoro per attuare una modernizzazione non solo degli strumenti e dei macchinari, ma del modo con il quale il fattore lavoro viene inserito nei processi produttivi. L’esempio francese segnala come in condizioni di vincolo strutturale, imprese e sindacato siano ancora in grado di trovare soluzioni innovative: e in Italia?