Presidente Mazzotta, l’attuale crisi dei mercati non sembra derivare dalla crisi dell’economia reale. Sembra invece dovuta alla parte “più evoluta e più moderna” della finanza. Quali sono secondo lei le ragioni e come si può uscirne?

È vero che l’andamento dell’economia reale, dopo un lungo periodo di quasi nove anni di crescita ininterrotta, è differenziato: c’é un rallentamento forte dell’economia americana e un andamento migliore di quella europea e all’interno di quella europea una crescita zero di quella italiana. Anche dal punto di vista dell’andamento dell’economia reale, dopo un lunghissimo periodo di crescita oggi siamo obiettivamente in una fase di rallentamento, anche se di rallentamento concentrato nelle aree più tradizionali della realtà economica mondiale.
A mio avviso le caratteristiche della crisi finanziaria che ha investito le economie riguardano da un lato la regolamentazione e dall’altro l’assetto istituzionale. Sulla regolamentazione: gli accordi che hanno costruito lo sviluppo del mondo del secondo dopoguerra prevedevano libertà nello scambio di merci ma controllo dei movimenti di capitali. La deregolamentazione dell’ultimo decennio ha visto grosso modo una totale libertà nel movimento dei capitali e questa è una delle condizioni che spiegano la crisi. E poi la totale flessibilità dei tassi di cambio. Fino agli anni ‘70 i tassi erano fissi nel sistema del cambio aureo, oggi i rapporti di cambio sono totalmente flessibili e in molti casi i tassi di cambio diventano strumento di concorrenza. Questi due fattori riguardanti la regolamentazione sono stati il presupposto della crisi finanziaria.



Per quel che riguarda invece l’assetto istituzionale?

L’economia ormai è interconnessa a livello mondiale e gli operatori possono fare movimenti di capitale, esercitare liberamente la loro attività, non sono controllati, di fatto, da nessuno perchè le strutture di vigilanza e di controllo non sono adatte a disciplinare e a rendere trasparenti i comportamenti dei soggetti che dovrebbero controllare rispetto alla loro reale operatività. In un periodo nel quale la crescita è stata continuativa, alimentata da una grande abbondanza di liquidità e a tassi storicamente bassi, si sono verificate operazioni fatte da intermediari che hanno prodotto allocazioni delle risorse molte volte diseconomiche, senza che nessuno conoscesse l’entità di questi fenomeni. E quando le flessioni dell’economia reale, leggasi nel settore dell’edilizia e dell’economia immobiliare, hanno creato elementi di crisi nella base di garanzia reale di alcuni strumenti finanziari, il meccanismo è entrato in tilt e il mondo si è spaventato perchè nessuno era in grado di stabilire di che dimensioni fosse il fenomeno.



Si può imputare la crisi alla “fantasia” degli intermediari che hanno creato strumenti finanziari senza garanzie?

La causa della crisi finanziaria non è stata solo la fantasia degli intermediari, è stata la mancanza di regolamentazione praticamente totale in relazione ad una crescita per anni legata a una liquidità abbondante. Le autorità non conoscevano i fenomeni, perchè molti degli intermediari che dovevano controllare gestivano tutte le partite fuori bilancio, e quindi mancava la conoscenza dei flussi. Quando il meccanismo si è incrinato, non avevano nessuno che potesse dire “state tranquilli, il fenomeno è di queste dimensioni”; il mercato ha reagito in maniera nevrastenica, con la paura. E il primo mercato che ha avuto paura del rischio è stato il mercato interbancario: le banche non si sono più fidate delle banche.
La risposta del sistema ha “coperto” il primo problema perchè le autorità monetarie hanno inondato il mercato di liquidità; questo ha riportato tranquillità. Certo non è trascorso del tutto il periodo nel quale coloro che hanno realizzato operazioni sbagliate, distruggendo ricchezza, dovranno trarne le conseguenze. Può darsi che le banche abbiano bisogno di ulteriore capitale, che qualche intermediario debba essere salvato un’altra volta.



Ci sono analogie tra l’attuale crisi e quella del ’29?

Rispetto alla crisi del 1930-1932 il mondo finanziario ha imparato a gestire le crisi, non a impedirne le cause. Primo: allora ci fu una crisi di liquidità e le banche centrali rimasero immobili e questo fece sviluppare la crisi in maniera esponenziale. Secondo: la mancanza di liquidità provocò crisi bancarie e le banche fallirono. Quando nel ‘30 chiuse una grande banca, da lì inizio la crisi violenta del sistema perchè questa chiusura generò il terrore nel mercato. Nell’autunno del ‘30 la Federal Reserve di New York, vedendo che si formavano delle code davanti agli sportelli delle banche dopo il fallimento bancario, deliberò la chiusura degli sportelli per una settimana su tutto il territorio dello Stato. Non appena riaprirono le code furono decuplicate. Questi errori non sono più stati ripetuti e i paesi più rigorosi nell’attività di central banking, come inglesi e americani, hanno dimostrato che i salvataggi bancari li hanno fatti con denaro pubblico. Perchè la banca inglese salvata dalla Banca Centrale è stata salvata con denaro pubblico. Il complesso di queste cose – il pompaggio di liquidità, la dimostrazione che le banche non falliscono, una situazione in cui le autorità monetarie parlano tra di loro e hanno comportamenti collegati – è servito a ridurre la paura e a ridare al mercato un equilibrio e una stabilità.

Pare che il sistema italiano abbia accusato meno di altri gli effetti di questa crisi finanziaria che ha investito più altri paesi. Come lo spiega?

Non lo spiegherei, come si sarebbe tentati di fare, dicendo che il nostro sistema è più arretrato di altri. Il nostro sistema è anche diversificato. Io credo che il fatto che le banche italiane, anche quelle di dimensioni internazionali, non abbiano imbarcato le stesse quantità di errori, è stato determinato dal fatto che gli intermediari italiani erano già provati a causa di alcuni gravi errori precedenti. Li avevano resi più prudenti: e mi riferisco a Parmalat, Cirio, la faccenda dei bond argentini. Il fatto di avere avuto un’esperienza di questo genere ha creato all’interno degli organismi bancari una condizione di prudenza. Soprattutto gli uffici-finanza delle banche erano sottocontrollo.

Siamo alla vigilia di un inasprimento fiscale nei confronti degli istituti di credito. Come vede il problema? Da un lato si è agito in accordo con l’Abi per il caro-mutui. Sul versante della tassazione per le banche?

Sulla tassazione delle banche il principio cui attenersi è che sarebbe sempre bene – anche per le banche – che la fiscalità non diventi uno strumento di asimmetria competitiva. Il problema fiscale deve sempre essere trattato con equità. L’equità, per l’impresa, è che uno strumento come quello fiscale, esterno all’impresa, non cambi le condizioni di capacità competitiva dell’impresa, quindi non l’aggravi e non la favorisca. Sarebbe pessimo avere una situazione di defiscalizzazione di un settore produttivo per aumentare la sua capacità concorrenziale. Sarebbe sbagliato all’interno di un mercato che tende alla trasparenza. È anche sbagliato pensare di sovratassare in una determinata area territoriale un sistema di imprese, perchè ne risulterebbe indebolito nella concorrenza.

Dopo la stagione di acquisizioni e fusioni il nostro sistema bancario sembra aver trovato un suo equilibrio. Occorre invece varare una riforma delle banche popolari che le renda più vicine alle esigenze del mercato e della concorrenza europea. Quali cambiamenti andrebbero introdotti?

Vanno fatte due cose, una con rilevanza di diritto societario e una con rilevanza di diritto industriale. La prima: le banche popolari devono essere aiutate a uniformarsi alla logica della public company. In Italia le public company non hanno avuto mai molto successo. Mentre nelle nostre società di capitali abbiamo un florilegio di patti di sindacati e di accordi diversi, nelle popolari il principio del voto capitario rende possibile la prospettiva che ci sia una forma societaria che dà anche a una grande impresa la possibilità di non avere strutture azionarie di comando. Credo che questo vada rafforzato: deve rimanere la tutela del voto capitario, ma è bene che si stabilisca con una norma che all’interno di questa struttura societaria nessun interesse formalizzato costituito e omogeneo – nessuno stakeholder, come si dice – abbia direttamente o indirettamente la prevalenza sugli altri. È bene che all’interno di questa struttura societaria il voto capitario serva la mancanza di posizioni dominanti. Questo è un elemento di diritto societario.
Secondo: che questa forma favorisca le operazioni industriali vantaggiose per le imprese, sia cioè una forma societaria che, non creando situazioni di comando e quindi di interessi in conflitto con la crescita delle aziende, favorisca operazioni di alleanza, integrazione, accorpamento che i mercati sollecitano e che possono dar luogo a operazioni industriali efficaci. Che la forma societaria non sia di impedimento, ma faciliti invece operazioni industriali nell’interesse dell’azienda e quindi degli azionisti, dei dipendenti. Dal punto di vista industriale l’Italia negli ultimi anni ha fatto grandi cose per ciò che riguarda il sistema bancario. Ma manca un elemento. Nelle regioni industrializzate si sente forte il senso della piccola e media impresa, non solo la mini impresa ma quella media, che può diventare forte perché è competitiva sui mercati esteri ed esporta. Probabilmente non c’è un sistema bancario in grado di aiutare questo tipo di impresa.

Come si può fare?

Si dovrebbe completare il sistema di razionalizzazione delle banche popolari ed a avere tre grandi gruppi – due ci sono e il terzo dovremmo farlo noi con gli amici dell’Emilia, che sono la banca di riferimento delle imprese piccole e medie in regioni chiave come il Piemonte, la Lombardia, il Veneto, l’Emilia. I tre gruppi insieme dovrebbero porsi il problema di come si possa realizzare una struttura per la finanza e per il credito a medio termine dell’impresa, una struttura che possa aiutare il sistema delle imprese italiane a trovare una banca capace di sostenerle nello sviluppo. Ed è una cosa che va fatta negli prossimi due o tre anni.

(Foto: Imagoeconomica)