In questi ultimi giorni un po’ tutti coloro che scrivono di economia e finanza si sono sbizzarriti nel fare previsioni su cosa dirà il Governatore Mario Draghi nelle sue “considerazioni finali” di domani. Ovviamente tutti hanno preso spunto, con riferimenti e analisi, da quanto è accaduto in questi ultimi anni: il consolidamento del sistema bancario italiano e la necessità od opportunità di nuovi modelli di governance, la crisi seguita al crollo dei mutui subprime e la funzione di chi deve esercitare la vigilanza, la grande fuga dal risparmio gestito con il conseguente obbligo di una più marcata divisione di ruoli fra chi gestisce e chi distribuisce prodotti finanziari legati al risparmio. E tanto altro. Ognuno poi ha cercato di individuare le priorità per correggere e rendere più competitivo il nostro sistema.
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Da parte mia vorrei dare un contributo cercando di riportare l’attenzione su un punto che mi sembra centrale e che riguarda la fiducia verso gli intermediari bancari e finanziari, come interlocutori fondamentali per la crescita dell’economia. Parlare sempre e solo di cure urgenti, di stato di emergenza, di “guardie e ladri”, serve solo ad aumentare la confusione alimentando pregiudizi sulla spinta del successo mediatico assicurato quando si usano le armi della demagogia e del catastrofismo.
Questo non vuol dire sottovalutare i problemi e far finta che nulla sia successo. Le stesse questioni poste da Draghi fin dalla sua nomina, sempre puntuali e motivate, e molti suoi interrogativi attendono da tempo una risposta: per esempio le grandi fusioni si sono tradotte in benefici per la clientela? E ancora, i modelli di governance sono più confacenti alla conservazione di posti di potere o a una maggiore efficienza? Il conflitto di interessi si è attenuato o è rimasto invariato oppure si è addirittura acuito? Io aggiungo: la fuga dal risparmio gestito è stata dovuta all’immissione sul mercato di altri prodotti solo apparentemente più redditizi, o è avvenuta anche per la scarsa capacità e la non indipendenza dei gestori? Di chi sono le responsabilità se le imprese faticano a fare un salto dimensionale?
È evidente che se si vuole assecondare una facile demagogia la risposta è sempre la stessa, quella di invocare più regole e quindi sanzioni più aspre. Anche se già oggi rischiamo davvero un’intossicazione da over regulation con costi certi e senza alcun risultato sul piano dell’efficienza e della trasparenza.
Per riportare fiducia il primo passo lo deve fare il mondo della finanza, in primis le banche, innanzitutto attraverso una diversa politica remunerativa che premi chi crea ricchezza duratura, legata da una parte al consolidamento del proprio patrimonio e, dall’altra, a quanto si è riusciti a far crescere il proprio territorio di riferimento: questo significa imprese che sono state aiutate a uscire da una fase di crisi o a compiere un salto dimensionale, ma vuol dire anche fiducia da parte delle famiglie nell’affidare i loro risparmi, partecipazione a progetti di sviluppo legati al territorio (infrastrutture, ospedali, ecc). E tutto ciò passa attraverso un alto profilo professionale e umano da parte di chi si imbatte quotidianamente con tali bisogni.
Qualcuno mi potrebbe obiettare che le banche non fanno beneficenza e devono primariamente generare valore per i propri azionisti, e in questo sono d’accordo. È però altrettanto vero che le banche possono creare ed esportare ricchezza duratura solo rafforzando il loro legame con l’economia reale; pena, come spesso accade oggi, di assimilarsi più alla logica dei centri commerciali, riducendosi a vendere il più delle volte prodotti standard confezionati altrove. Credo infatti che le banche siano imprese, ma in realtà fungono anche da infrastrutture territoriali e, quindi, sarebbe grave miopia non considerare il territorio come una preziosa risorsa da coltivare.
Per tali ragioni oggi possiamo affermare che il breve termine non ha futuro.