Siamo alle porte di una stagione di intervento pubblico e regolazione dei mercati? L’aria che tira sembrerebbe essere quella – e si sono moltiplicate, nelle scorse settimane, le analisi che hanno suggerito che la globalizzazione sarebbe in realtà ad un punto morto. La più autorevole, di Bob Davis per il Wall Street Journal, si è focalizzata sui probabili effetti del “nuovo nazionalismo” che si va imponendo in più parti del mondo. Per Daniel Yergin, che anni fa col libro e poi col documentario “Commending Heights” aveva raccontato l’affermarsi delle idee di mercato, il potere dello Stato si sta riconsolidando – e “the era of easy globalization is over”.



Per valutare quanto queste affermazioni siano effettivamente attendibili bisogna separare i trend dalle suggestioni del momento. Queste ultime sono legate essenzialmente alla crisi finanziaria internazionale e, prima ancora che ai suoi effetti, alle sue conseguenze future che sono state proiettate da alcuni analisti e dalla stampa. L’esplosione dei “subprime” e delle bolle immobiliare e delle commodities è servita per (a) sostenere che si sia verificato un fallimento del mercato e (b) immaginare un futuro di povertà, se a quel fallimento non si pone rimedio.
In Italia, qualcuno ad a e b ha aggiunto una tesi “c”. Partendo dal fatto che le economie asiatiche sono sostanzialmente al riparo dalla crisi, in virtù degli strepitosi tassi di crescita, si è detto che in questo scenario di globalizzazione diventa obbligatorio confrontarsi con una scelta netta: o mangio io, o mangi tu. Pertanto, alla correzione dei meccanismi di mercato deve accompagnarsi un “arrocco” rispetto allo scambio internazionale, se non vogliamo che la nostra ricchezza ci sia “sottratta” da altri Paesi.

Per dirlo nel modo più educato possibile, queste sono sciocchezze. Lo sono non perché non vi sia una crisi finanziaria, anche grave e le cui conseguenze non si sono ancora palesate appieno, ma perché partono da una fotografia del mondo perlomeno allucinata. Perché (c) sia vera, la ricchezza del mondo dovrebbe essere una torta, che al massimo si può spartire in fette di diversa dimensione. Non è così, ovviamente. Il fatto che io diventi più ricco non significa che un altro individuo diventi più povero. Ci sono solo due situazioni in cui questo avviene: il furto, o la tassazione. Quando io mi “impoverisco” di dieci euro per acquistare un libro, non è solo il libraio che si arricchisce (e se si fosse “impoverito” lui di un libro?). Se gli ho ceduto volontariamente dieci euro per un volume, significa che stimavo il valore di quel testo, per me, in quel momento, superiore ai dieci euro che gli ho allungato. Non ho “perso” dei soldi: li ho scambiati per qualcosa che credo valere più di essi. In un furto (o venendo tassati), questo non avviene. Non c’è uno scambio, non c’è interazione fra individui. Semplicemente, un tizio (uno Stato) ci toglie, senza nulla darci e senza chiederci il nostro consenso, il denaro che abbiamo in tasca. Noi siamo più poveri, lui è più ricco. È abbastanza evidente che quando “arricchiamo” i commercianti cinesi comprando dei jeans a cinque euro sulle bancarelle di un mercato, nessuno ci punta una pistola alla tempia. Ci sono, è vero, problemi di adattamento alla nuova divisione del lavoro internazionale. Ma è la vecchia storia del dito e della luna.



Torniamo ad (a) e (b). (a), per essere presa seriamente in considerazione, presupporrebbe che noi si fosse in condizione di anarchia. Un mercato senza altre regole che le sue, sottratto del tutto all’arbitrio di “regolatori” esterni, avrebbe la piena responsabilità di dimostrare la propria efficienza. È questo il caso dei mercati finanziari? Evidentemente no.
Non è neppure il caso del mercato “globalizzato”, sul quale una (ideologica) esuberanza irrazionale ha lasciato spazio a investimenti sbagliati e atteggiamenti truffaldini. Se l’euforia senza fondamenti che ha generato il “boom”, al quale inevitabilmente il “bust” fa seguito, è dovuta alla gestione della moneta, si ha gioco facile nel ricordare che battere moneta è un attributo classico della sovranità.
Quando il regolatore c’è, dire “fallimento del mercato” è spesso solo un altro modo per dire “fallimento del regolatore”. Peccato che vi sia una grande differenza fra le due cose. Anche perché i (continui) fallimenti di chi regola e norma, potrebbero forse un giorno portare ad un affievolimento della fiducia del pubblico in quegli stessi, fallibili regolatori.



L’impressione è che si stia annunciando la morte di qualcosa che non è mai nato: il mercato “selvaggio”. Quando, dodici anni fa, Bill Clinton dichiarava “the era of big government is over”, esprimeva un auspicio più che una valutazione.
La stessa “globalizzazione” è un fenomeno ampiamente regolato. Gli accordi internazionali che minerebbero le nostre produzioni, vengono più o meno accortamente negoziati da attori pubblici, e hanno tempi d’implementazione ben definiti. Se è vero che gli accordi multilaterali sono in crisi, è altrettanto vero che non è un fenomeno di oggi: e lo stallo del Doha Round non si spiega in virtù di una domanda ideologica “iper-mercatista”, quanto per il conflitto fra egoismi nazionali.
Sul piano interno, auspicare il “ritorno dello Stato” appare ancora più curioso. Si è sostenuto che lo Stato starebbe “tornando” nella partita Alitalia: per esempio acquisendo parte dell’impresa con Ferrovie, Eni, Sviluppo Italia, o Cassa Depositi e Prestiti. Quella che doveva essere una “privatizzazione” si concluderebbe con un altro drenaggio di denaro dei contribuenti. Il che non significa che stia “ritornando” l’interventismo: perché per ritornare, qualcosa deve essere prima andata via.

In conclusione, in Occidente non stiamo constatando nuovi problemi e bisogni cui solo lo Stato può dare risposta: perché tali presunte “questioni nuove” si verificano in realtà dove lo Stato è ben presente, e a dir la verità non può vantare esiti particolarmente fortunati.
L’analisi del Wall Street Journal tiene, però. Tiene perché il quotidiano americano non sta, come altri in Italia, immaginando un’esigenza: ma fotografando una tendenza politica. La quale, sul piano internazionale, è forte per due ragioni. Da una parte, le difficoltà che i regimi liberal-democratici incontrano in America Latina, e in Russia: l’aumento del controllo politico è la regola nelle autocrazie di Chavez e Putin, ma come potrebbe essere altrimenti? Lo statalismo senza un’erosione delle libertà personali è un’illusione, per la quale in Occidente “abbiamo già dato”. Ed ecco che l’interventismo economico si fa più forte, proprio in quei Paesi in cui si va consolidando una nuova forma di tirannide. Che sorpresa. La seconda è l’incertezza circa l’esito delle presidenziali americane, con i democratici molto sbilanciati a sinistra – come forse inevitabile, dopo un ciclo politico a posteriori sfortunato come quello di George W. Bush.
Non ci sono ragioni per cui lo statalismo debba “ritornare” – se non altro perché non se ne è mai andato. Restano invece intatti e più che mai attuali tutti i motivi che ci porterebbero a guardare nella direzione opposta.