Che le medie aziende manifatturiere costituiscano un punto di forza dell’economia italiana è un dato che a un osservatore attento non può sfuggire. Sulla carta sono quelle, in tutto circa quattromila, con un fatturato tra i 13 e i 290 milioni di euro e con un numero di dipendenti tra i 50 e i 499. Nei fatti si tratta di imprese che, nonostante le difficoltà di questi ultimi anni, hanno continuato ad aumentare il loro giro d’affari e a rappresentare con successo l’Italia sui mercati internazionali con una crescita a doppia cifra anche nel 2007. In base all’ultima indagine Mediobanca-Unioncamere solo in Lombardia, dove sono ben 1266, il loro fatturato aggregato nell’ultimo decennio si è incrementato del 38% raggiungendo i 42,741 miliardi, mentre il valore aggiunto creato ha superato i 10 miliardi. Il risultato netto annuo è stato di 817 milioni di euro, mentre i dividendi ammontano a circa 500 milioni. E circa 160 mila sono le persone a cui danno lavoro. Al fisco lasciano più di un miliardo di euro l’anno.
Soprattutto a un paese come il nostro – che fatica a crescere e a valorizzare seriamente la risorsa umana, dentro un mondo smarrito nell’attuale crisi figlia della troppa e facile finanza e che mette in discussione seriamente, forse per la prima volta nella storia, la sostenibilità del nostro modello economico – tali indicatori suggeriscono che è opportuno e realistico ripartire proprio dalla realtà di queste imprese dinamiche. E non certo per assecondare lo slogan “medio è bello”, che sostituirebbe il “piccolo è bello” di alcuni anni fa, ma piuttosto per ragioni molto concrete che sintetizzerei di seguito in quattro punti cruciali.
Infatti, pur essendo convinto che la dimensione non sia un dogma, ritengo che sussistano fondati motivi per auspicare la crescita delle piccole aziende e che la finanza, che non è il male assoluto, debba aiutare queste ultime al salto dimensionale per salvarsi dal rischio di una perversa autoreferenzialità.



Banche diverse per crescere – In tale prospettiva si comprende quale possa essere il ruolo soprattutto delle banche. Nei decenni passati una funzione importante al servizio delle imprese è stata svolta dal sistema dei mediocrediti. Oggi che la transizione verso il modello di banca universale si è definitivamente consolidata appare evidente la necessità di recuperare soprattutto strumenti per il credito industriale a mediotermine. Cosa che assume particolare rilevanza in un momento in cui le banche si trovano di nuovo a registrare una significativa crescita dei ricavi derivanti dall’attività creditizia, a scapito di quella finanziaria, e a misurarsi con le nuove regole di Basilea 2, che tendono invece a una più severa concessione del credito. Proprio per questo occorre il coraggio di scommettere sulle piccole imprese aiutandole nella loro crescita. Ma perché sia così servono scelte coraggiose che sappiano guardare al di là della mera applicazione di parametri patrimoniali. E quindi oltre a dirigenti preparati, conta soprattutto la lungimiranza dei banchieri. Ovviamente un contributo importante potrà venire anche dall’incentivazione di iniziative più direttamente legate al capitale di rischio o da strumenti alternativi al credito bancario come ad esempio i bond industriali, la cui diffusione va facilitata attraverso la leva fiscale. Parimenti servono strumenti di garanzia e politiche che premino il reinvestimento degli utili. Tutto questo per far sì che la crescita non resti solo un auspicio.



Capitale umano – Altrettanto fondamentale per lo sviluppo delle imprese è il capitale umano. È necessario formare qualificate professionalità alle quali va riconosciuta un’adeguata remunerazione. Puntare su una logica al ribasso, se nell’immediato può dare qualche apparente beneficio al contenimento dei costi, alla lunga è senz’altro perdente. In un’economia avanzata lo scambio fra basse retribuzioni e bassa qualità del lavoro è mortale. Siccome questa tentazione, o necessità, è molto forte nelle piccole imprese, è indispensabile la loro crescita dimensionale per facilitare il posizionamento su segmenti di mercato a più alto valore aggiunto.
Non è sufficiente occupare i laureati, ma occorre valorizzarli per il loro potenziale: ancor prima che come semplici dipendenti, vanno visti come essenziali e potenziali collaboratori degli imprenditori. Sarebbe opportuno pensare anche a forme di condivisione del rischio d’impresa, per esempio attraverso forme di partecipazione al capitale. In questo senso un paese come l’Italia deve guardare all’università non con la logica di un costo da sostenere, ma con quella dell’investimento. Non possiamo disinteressarci infatti della “qualità occupazionale”.



Trainare l’innovazione – Le medie imprese per le loro caratteristiche dimensionali riescono a creare il giusto equilibrio tra la gestione imprenditoriale e quella manageriale, tra obiettivi di medio periodo e altri di breve termine. Nei distretti industriali in cui operano sono inoltre in grado di fare da traino all’innovazione stimolando le potenzialità di crescita della rete di Pmi con cui interagiscono. Sarebbe una follia separare i luoghi in cui si pensa e si progetta da quelli in cui si fa e si produce. E purtroppo questo è ciò che molte volte è successo, ma si tratta di una distinzione artificiosa: il pensiero, infatti, è sempre inscindibilmente connesso al fare. La capacità di trasfondere genialità e innovazione nel prodotto e nella stessa catena della produzione è sempre stata un punto di forza del modello italiano. Proprio nei giorni scorsi ho avuto l’opportunità di entrare in contatto con una nuova società costituita, anche col concorso di capitali esteri, per produrre impianti per la trasformazione di scarti organici in carburante. I promotori di tale iniziativa imprenditoriale ad alto contenuto innovativo mi riferivano di aver trovato in Lombardia, nel raggio di pochi chilometri, tutte le competenze necessarie per la messa a punto del loro prototipo industriale. Insomma un contesto ideale per il decollo di un progetto destinato ad avere risultati interessanti, difficilmente riproponibile in altre realtà. Quanto di tutto questo viene contemplato dai misuratori del livello di innovazione oggi normalmente in voga? Poco o nulla. Eppure proprio nella capacità di un’impresa o di un territorio di saper fare da catalizzatore di risorse, professionalità, capitali, know how, sta quel fattore decisivo che può davvero fare la differenza.

Creare ricchezza o ridistribuirla? – Quello che occorre insomma è un cambio di marcia che investe i diversi protagonisti in campo. Tra essi anche le organizzazioni sindacali, che devono essere più attente alla crescita e alla creazione di ricchezza. Questa deve essere la preoccupazione fondamentale. Sottolineare solo il problema della redistribuzione o della difesa corporativa di una categoria, risponde invece a una logica di breve periodo, esattamente la stessa che viene imputata a una certa finanza.

(Foto: Imagoeconomica)