Nel contesto di una congiuntura mondiale poco brillante e con molti segnali contraddittori (indice, peraltro, di un diffuso nervosismo e di una sostanziale incertezza) l’economia italiana nel suo complesso si presenta in condizioni di particolare debolezza, soprattutto nel raffronto con i principali Paesi dell’Unione Europea.
In questo articolo, si cercherà di evidenziare alcuni dei principali nodi economici che debbono essere affrontati con urgenza con l’avvio della nuova Legislatura e la costituzione di un nuovo Governo, al fine di non compromettere ulteriormente le possibilità di un rilancio delle prospettive di crescita del nostro Paese nel contesto europeo e dell’economia globalizzata. Infatti, secondo i dati resi noti dall’ISTAT a fine febbraio, l’Italia figura quale “fanalino di coda” tra i principali Paesi dell’UE avendo registrato nel 2007 un tasso di crescita reale del PIL dell’1,5%, rispetto all’1,9 della Francia, al 2,5 della Germania e al 2,9 del Regno Unito. Le previsioni al momento disponibili per il 2008 sono ancora più modeste, in quanto prefigurano una sostanziale stagnazione del PIL italiano (con un tasso di crescita stimato in pochi decimali di punto percentuale). Ciò significa anche il che PIL per abitante rimarrà nella migliore delle ipotesi stabile, e potrà addirittura diminuire, soprattutto a seguito dei flussi migratori in entrata, che integrano la modesta crescita di circa lo 0,2% annuo della popolazione residente.
È del tutto evidente quindi che occorre impostare con urgenza misure adeguate per rivitalizzare la crescita. In taluni casi (come ad esempio in materia di politica industriale e dell’innovazione) sono necessarie profonde revisioni delle misure in corso di attuazione, mentre in altri occorre impostare ex novo azioni adeguate (come ad esempio in materia di infrastrutture).
Già all’inizio della precedente Legislatura ci si era soffermati sui principali problemi da affrontare, che tuttavia solo in parte hanno trovato soluzioni soddisfacenti. In particolare, mentre i conti pubblici sono rimasti sostanzialmente sotto controllo nel rispetto dei vincoli del Patto di crescita e di stabilità europeo (grazie alle misure del precedente Governo e all’inasprimento della pressione fiscale attuato dal Governo Prodi), meno efficaci sono risultate le misure a favore dell’economia e dello sviluppo, come dimostrano i deludenti risultati relativi al 2007 citati più sopra e le previsioni al momento disponibili per il 2008.
Sempre sulla base dei dati forniti dall’ISTAT a fine febbraio, nel 2007 il rapporto tra il disavanzo pubblico corrente e il PIL (che rappresenta l’indicatore cruciale per valutare il rispetto del Patto europeo di crescita e stabilità) era dell’1,9 per cento, mentre la pressione fiscale nell’anno scorso è risultata del 43,3 per cento (nel rapporto tra gettito tributario e PIL), un livello mai raggiunto negli anni recenti, cui vanno aggiunti gli effetti degli aumenti nelle imposte locali e regionali, oltre che degli inasprimenti delle tariffe soprattutto nei servizi di pubblica utilità.



Livelli di competitività troppo bassi
Uno dei principali problemi di fondo dell’economia italiana è lo scarso grado di competitività complessiva sulla scena internazionale. Ciò dipende da vari fattori, che rappresentano una ideale “agenda for action” al fine di migliorare le prospettive di crescita economica, a sua volta premessa indispensabile per migliorare la qualità della vita dei cittadini e per dare soluzione a nuovi e vecchi problemi che impediscono un miglior equilibrio sociale.
Il tema della competitività è fondamentale in quanto l’Italia è un Paese che non può che essere inserito in modo attivo e soddisfacente nell’economia globale proprio a causa delle sue caratteristiche di fondo; infatti un tempo essa veniva definita come un “Paese trasformatore” che esporta manufatti per poter importare le materie prime e le risorse energetiche di cui è carente. Oggi è cambiata la struttura del sistema produttivo (più spostato verso i servizi), oltre che quella dei mercati internazionali, ma il problema resta lo stesso.
Come emerge dai ranking internazionali (come quelli prodotti dal World Economic Forum che a fine gennaio ha tenuto la sua Convention annuale a Davos) l’Italia è ampiamente superata non solo dai tradizionali concorrenti e dai nuovi protagonisti dell’economia mondiale, ma anche da Paesi che considereremmo ben più arretrati del nostro. Pur trattandosi di “classifiche” che si prestano a molte critiche[1], senza dubbio esse mettono in luce una situazione preoccupante, che poi puntualmente si ripropone nei dati relativi al commercio estero e nella deludente performance complessiva del sistema.
L’Italia è penalizzata sia da fattori “fisici” (come la carenza di infrastrutture) che “di contesto” (ruolo della Pubblica Amministrazione, carenze nel settore dei servizi, scarso grado di concorrenza in molti mercati, riforme incompiute del mercato del lavoro, scarsa ricerca e sistema formativo ai vari livelli sempre meno adeguato, come puntualmente mostrano i raffronti internazionali in materia, eccessiva pressione fiscale e altri ancora) che si ripercuotono negativamente sulla perfomance delle imprese.
Se il “capitale fisico” è inadeguato, non certo migliore è la situazione per quanto riguarda il “capitale umano”, nonostante la retorica in materia e i buoni propositi della “Strategia di Lisbona” adottata nel 2000 dall’Unione Europea.
Sino all’avvio della moneta unica europea, il nostro Paese cercava di cavarsela modificando i prezzi relativi (dei beni domestici rispetto a quelli internazionali) attraverso svalutazioni del tasso di cambio (appunto definite “competitive”) con il risultato di guadagnare un effimero sollievo, salvo poi vederlo vanificare dall’inflazione e dover ricominciare tutto da capo. L’euro ha posto fine a questo comportamento furbesco e quindi il tema della competitività basata su fattori diversi dai prezzi (che non sono più manipolabili attraverso modifiche del tasso di cambio) si è imposto in modo drammatico.
È vero che molte medie imprese hanno saputo reagire con profonde ristrutturazioni e l’introduzione di innovazioni per recuperare efficienza, dimostrandosi in grado di reggere la concorrenza internazionale, ma ciò riguarda solo una parte del sistema produttivo, quella appunto esposta alla concorrenza internazionale. Le imprese operanti principalmente sul mercato domestico e quelle del settore dei servizi (comprese molte di quelle nei servizi di pubblica utilità, o public utilities) hanno invece visto crescere inefficienze varie, appesantendo così l’intero sistema Italia. Diventa così sempre più preoccupante il “dualismo” che viene imponendosi all’attenzione nella situazione competitiva del Paese, tra alcuni comparti che si comportano in modo brillante, e molti altri che invece accumulano ritardi ed inefficienze.
Inoltre, uno dei motivi per cui l’inflazione percepita dai cittadini sembra maggiore di quella che risulta dai dati ufficiali deriva proprio dalla scarsa concorrenza nei servizi offerti dal mercato (ad esempio distribuzione commerciale, servizi al consumo, ma non solo) e in quelli di pubblica utilità.
La scarsa competitività dipende anche dal basso grado di “libertà economica” che caratterizza il Paese. Nelle scorse settimane, Heritage Foundation ha pubblicato il suo rapporto annuale in materia, dove di nuovo l’Italia figura tra i fanalini di coda, a conferma di simili indicatori in materia di “business climate” prodotti dalla Banca mondiale.
Ciò dipende dagli eccessi di burocrazia e di regolamentazioni inutili (mentre spesso sono carenti quelle di cui un moderno sistema economico dovrebbe essere dotato), da un sistema fiscale tuttora farraginoso e in continua complicata evoluzione, da un ruolo pervasivo dello Stato e dei livelli inferiori di governo che soffocano l’attività dei soggetti economici. Ogni volta che si parla di liberalizzare, il risultato è quello di nuovi “lacci e laccioli” che imbrigliano le risorse, anzicchè liberarle per promuovere sviluppo.
Scarsa attrattività del “sistema Italia”
Un altro (speculare) nodo di fondo riguarda l’attrattività del sistema, cioè la capacità di mantenere le risorse a disposizione e di attirarne di nuove (sia capitale fisico che capitale umano). Senza indulgere sul dibattito relativo alla “fuga dei cervelli”, è indubbia la scarsa capacità del sistema Italia di attirare talenti, mentre altrettanto emblematica è la composizione degli investimenti esteri che vi affluiscono. Questi sempre più riguardano attività che si rivolgono a un utilizzo finale, cioè che cercano di sfruttare un mercato con un relativamente alto potere d’acquisto e senza eccessiva concorrenza, piuttosto che imbarcarsi in settori produttivi, che inevitabilmente devono fare i conti con la concorrenza internazionale, e quindi con i bassi livelli di competitività. Quindi l’Italia è un Paese dove gli stranieri preferiscono investire per ritorni immediati (sino a che la scarsa performance economica non si farà sentire sul potere d’acquisto), piuttosto che guardando al futuro in una prospettiva di crescita.
Tra i fattori negativi che sembrano scoraggiare un maggior impegno da parte degli investitori esteri occorre segnalare l’eccesso di burocrazia e la farraginosità della regolamentazione nei rapporti tra Pubblica amministrazione (sia statale, che regionale e locale) e imprese, le lentezze del sistema giudiziario e gli scarsi livelli di sicurezza e di legalità (perlomeno in alcune parti del territorio nazionale), l’inadeguatezza delle infrastrutture e dei servizi, e altri ancora. Interventi decisi su questi fronti sono indispensabili se non si vuole di fatto rinunciare a flussi di risorse dall’estero, peraltro fondamentali per rivitalizzare lo sviluppo economico del Paese.
Liberare risorse e modernizzare l’economia
Il tema delle liberalizzazioni è ricorrente nel dibattito economico ed è particolarmente importante per un’economia come quella italiana, “ingessata” da troppi vincoli che mortificano il ruolo del mercato nell’uso efficiente delle risorse. Nonostante l’ampio spiegamento di “Autorità” preposte al buon funzionamento (nei vari ambiti) dell’economia e del mercato, i livelli di “libertà economica” (come già accennato più sopra) ci vedono fanalino di coda tra i principali Paesi con cui ci confrontiamo, a causa degli scarsi livelli di concorrenza in molti ambiti, del ruolo pubblico pervasivo (sino ai monopoli di fatto nella maggior parte dei servizi di pubblica utilità controllati dagli Enti locali), del potere di gruppi e corporazioni prevalentemente attenti a difendere le proprie posizioni di rendita, piuttosto che agli interessi generali del Paese.
Liberalizzazioni e modernizzazione dell’economia sono due facce della stessa medaglia e rappresentano un imperativo per l’Italia al fine di poter svolgere un ruolo più soddisfacente nell’economia globalizzata, in quanto solo così è possibile “liberare risorse” da destinare allo sviluppo ed alla crescita economica per far fronte ai molti problemi con cui ci confrontiamo.
Alcune linee di azione
Che fare per risollevare le sorti del sistema Italia?
All’inizio si è parlato di una sorta di “agenda for action” che emerge chiaramente dalle considerazioni svolte. Occorre veramente liberalizzare l’economia e migliorare l’efficienza e la concorrenza sui vari mercati, occorre ridurre il ruolo dello Stato ovunque possibile e affidare ai soggetti economici ed alla sussidiarietà il compito di un uso più efficiente delle risorse, occorre ridurre la pressione fiscale (tagliando la spesa pubblica che è per definizione inefficiente e improduttiva) affinchè le risorse siano canalizzate a fini di sviluppo e di migliore equilibrio sociale, occorre investire sul futuro (ricerca, capitale umano, valorizzazione dei giovani e dei talenti) piuttosto che dedicarsi alla tutela delle posizioni acquisite, delle rendite, delle corporazioni.
Particolare attenzione meritano quindi le questioni relative alla finanza pubblica, su cui ci si è già soffermati più sopra. Innanzittutto, sembra urgente ed indispensabile elaborare un piano per la riduzione della spesa pubblica corrente, partendo dalle grandi voci di spesa, che riguardano in primo luogo i dipendenti pubblici. E’ del tutto evidente come in molti settori essi siano in numero esorbitante rispetto alle funzioni svolte, e quindi di fatto malpagati e sotto-occupati. Valga per tutti il caso della pubblica istruzione e dell’università. Abbiamo un rapporto insegnanti-alunni tra i più elevati tra i Paesi industrializzati, senza che questo si rifletta nella qualità della preparazione degli studenti nei vari livelli di istruzione. Al contrario, i raffronti internazionali e le classifiche in proposito vedono gli studenti italiani agli ultimi posti. Occorre quindi ridurre il numero degli insegnanti, formarli, motivarli (e pagarli) meglio per imprimere maggiore efficienza all’intero sistema. Analogamente, occorre porre un freno all’aumento nel numero delle università e focalizzare le risorse su quelle che veramente svolgono un ruolo adeguato nella ricerca e nell’alta formazione, prendendo atto che molte delle altre sono dei veri e propri junior college, che possono forse svolgere una funzione utile a livello locale, ma che non possono essere prevalentemente a carico dello Stato come le grandi università degne di questo nome.
Naturalmente non è possibile risolvere il problema dall’oggi al domani; occorre un piano da attuare con gradualità assieme ad un sistema adeguato di incentivi, dove il principale sta nel fatto che le risorse liberate dall’uso inefficiente che ne fa la Pubblica Amministrazione possono creare adeguate occasioni di lavoro in altri settori quale possibile (e più soddisfacente) sbocco per chi lascia l’impiego pubblico.
Infine, è importante qualche sottolineatura anche relativamente alla necessità di completare la riforma del mercato del lavoro e di rivedere la previdenza pubblica.
La cosiddetta “Legge Biagi”, che ha contribuito ad ammodernare il mercato del lavoro italiano ed a far aumentare considerevolmente il tasso di occupazione, rappresenta solo una parte di un più ampio disegno, che richiede interventi anche sul piano degli ammortizzatori sociali al fine di ottenere un risultato in termini di maggiore flessibilità nel mercato del lavoro (indispensabile alla luce dei continui e profondi cambiamenti prodotti dal nuovo contesto economico internazionale con cui debbono confrontarsi le imprese) accompagnato da misure che garantiscano maggiore sicurezza ai lavoratori. Infatti il concetto attorno a cui si dibatte in Europa è quello della flexicurity, cioè della flessibilità per il mercato del lavoro accompagnata da forme di sicurezza per i lavoratori coinvolti dalle sue dinamiche. Occorre che anche in Italia il dibattito abbandoni gli stereotipi del passato per affrontare in modo moderno una questione di tale importanza per tutti i cittadini.
Occorre infine riprendere la riforma (o meglio, la controriforma) del sistema pensionistico pubblico, per tenere conto delle dinamiche demografiche che rendono la situazione attuale insostenibile sul piano finanziario, quasi una “bomba ad orologeria” per la finanza pubblica nei prossimi anni, oltre che del tutto discriminatoria per le generazioni più giovani.
Considerazioni conclusive

Un attento esame di quanto attuato o programmato dai Paesi con cui ci confrontiamo suggerisce molte linee di azione utili anche per l’Italia. Una classe politica degna di etichettarsi anche come classe dirigente per il Paese ha bisogno solo di un po’ di intelligenza e di un po’ di coraggio per capire queste cose e per riuscire a spiegare ai cittadini italiani che si sta lavorando per il loro futuro (non solo lontano, ma anche prossimo) in un contesto economico internazionale che per noi è “un dato” (ci piaccia o no) e nel quale (come ad esempio si è riusciti a fare negli anni cinquanta, sino al varo dello storico progetto europeo, che ha richiesto coraggio e lungimiranza che oggi non si vedono in Italia) il nostro Paese può certamente trovare una collocazione e un ruolo ben più soddisfacenti dell’attuale.





Si veda P. Dubini, Misurare la competitività dei sistemi Paese: il modello del World Economic Forum, Economia e Management, n. 6, 2005.

(Questo articolo riproduce con alcune modifiche il testo pubblicato su Lecco economia, n. 1, marzo 2008)

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