Una decina di calibri da novanta dell’imprenditoria italiana; un partner estero che conferisca passeggeri alto-spendenti e prenda know how; un grande manager; due grandi aeroporti di scambio, gli hub, come possono essere Malpensa e Fiumicino; molti tagli all’organico, dolorosi finché si vuole ma improcrastinabili. A volerla riassumere molto, la terapia per la moribonda Alitalia è tutta qui. I nomi ufficiali ancora mancano, ma in controluce si iniziano a leggere: tra gli imprenditori che hanno già manifestato all’emissario del neopremier Silvio Berlusconi, cioè il consulente Bruno Ermolli, la loro disponibilità ad investire ci sono ad esempio il costruttore Salvatore Ligresti, Marco Fossati (erede Star), Diana Bracco (farmaceutici), Marco Tronchetti Provera e molti altri; il partner estero ideale potrebbe essere l’Aeroflot, compagnia di bandiera russa, grande oggi un quarto di Alitalia ma dotata di un mercato interno straordinario per consistenza economica e potenzialità di utenza. Sul nome del possibile manager c’è ancora il sipario, ma ne circolano un paio di tutto rispetto. E ancora: c’è un socio italiano capace di conferire buoni aerei e buone capacità di volo, Air One; e c’è la più grande banca del Paese, Intesa Sanpaolo, pronta a offrire tutto il necessario sostegno finanziario alla sfida.
Perché non è ancora tutto venuto formalmente alla luce? Innanzitutto perché l’avvicendamento Prodi-Berlusconi a Palazzo Chigi ha come “congelato”, per un mese, il regolare scorrere degli eventi. Poi perché quel quadro generale appena riassunto non è ancora sedimentato, assestato. E infine perché i veri padroni dell’Alitalia, assieme al Ministero dell’Economia, anzi più di esso, sono i sindacati, le nove sigle (nove!) che ne rappresentano i 10 mila dipendenti e che sono schierati a quadrato nella difesa dei “diritti acquisiti”, gli stessi – in verità insieme a molti altri fattori – che hanno condotto l’azienda allo stato prefallimentare in cui versa.
Ecco, rispetto alla consistenza numerica dell’organico, eccessiva al confronto con le medie internazionali, ma soprattutto alla sua misurabile prestazionalità produttiva, la ristrutturazione appare comunque inevitabile e più o meno severa in funzione di variabili esterne, come il prezzo del carburante e l’andamento del mercato. Ma inevitabile. Presentare – come qualcuno fa, soprattutto a destra e nel sindacato – la cordata italiana come l’antidoto alla cura dimagrante che la compagnia dovrà pur subire, per riparare agli eccessi e alle storture di troppi anni di finanza allegra è una fuorviante mistificazione. I tagli ci vogliono, e farne meno di quanti aveva programmato di voler fare Air France è praticamente impossibile.
Sarà necessario stringere i denti e tagliare – a nessuno piace farlo – perchè soltanto dopo si potrà rivedere ad alta quota l’Alitalia, con i suoi nuovi padroni. E allora bisognerà ricordarsi che il conto dei tagli dovrebbero pagarlo tutti coloro che nel corso degli ultimi vent’anni, prima all’epoca dell’Iri e poi anche dopo, hanno lasciato degenerare la crisi contando su indefiniti e fortissimi trasferimenti finanziari dello Stato, dalla natura totalmente assistenziale.