Gli interventi che mi hanno preceduto su ilsussidiario.net hanno già ampiamente sottolineato che il forte aumento dei prezzi di alcuni prodotti agricoli, che costituiscono la base alimentare di gran parte della popolazione mondiale, apre un problema di “emergenza cibo”: un crescente numero di persone, in particolare in paesi e regioni povere, non hanno accesso ad una sicura base alimentare. E’ stato evidenziato (vedi l’intervento di Emilio Colombo) che alla base di tale aumento vi sono fattori congiunturali, ad esempio il rilevante aumento dei costi di produzione dovuti ad aumenti nel prezzo del petrolio, fattori di carattere speculativo e fattori legati a decisioni politiche protezionistiche da parte di taluni paesi che per ragioni strategiche impediscono l’esportazione delle eventuali eccedenze di tali beni. Vi sono anche fattori strutturali di carattere economico fra cui, decisivo, quello del mancato progresso tecnologico agricolo negli ultimi decenni: la “rivoluzione verde” avvenuta negli anni Sessanta/Settanta in alcuni paesi (con l’introduzione di nuove tecnologie) non ha avuto ulteriori ondate di simile rilevanza, né è stata introdotta in molti altri paesi.
Nel mio intervento intendo toccare temi più di tipo strutturale che eccedono la questione attuale dell’emergenza alimentare e soprattutto insistere sulla dimensione sociale e istituzionale di queste stesse tematiche. Sui problemi di emergenza tornerò solo alla fine. Vorrei partire da un apparente paradosso. Se un settore perde produttività rispetto ad altri settori e la domanda dei suoi prodotti non diminuisce, i prezzi dei beni che produce dovrebbero aumentare in termini relativi (se si vuole è la versione “agricola” del Baumol Disease nei servizi urbani: se la produttività di questi servizi diminuisce relativamente a quella del settore industriale, i prezzi relativi di tali servizi aumentano, posto che la domanda degli stessi – legata alla dimensione urbana – non diminuisce). E’ successo il contrario. Benché la domanda di beni alimentari di base non sia diminuita a livello internazionale, per decenni i prezzi di tali beni (che pure non venivano prodotti con tecnologie che ne riducevano il costo) sono rimasti al palo, anzi sono diminuiti e hanno perso “potere d’acquisto” rispetto ad altri prodotti, rendendo relativamente più poveri (quando non erano protetti da misure di compensazione) i produttori agricoli, perché sia la stagnante produttività, sia i prezzi in diminuzione che generavano rilevanti perdite di potere d’acquisto, ne riducevano le remunerazioni. Solo nell’ultimo periodo, per i sottolineati fattori congiunturali, è successo il contrario.
Ritengo che le ragioni che hanno condotto a ciò siano sostanzialmente due. La prima riguarda le note politiche protezionistiche dei paesi sviluppati, che hanno contribuito a drogare la domanda internazionale di tali beni, mantenendone bassi i prezzi. La seconda è che il settore agricolo, negli stessi paesi in sviluppo, è stato spesso la cenerentola delle preoccupazioni politiche. Non vi è testo di economia dello sviluppo che non sottolinei come le preoccupazioni di molti governi dei paesi non sviluppati sono state costantemente puntate sui problemi urbani. Tenere sotto controllo gli aggregati urbani (fonte del potere politico e di preoccupazioni di ordine pubblico) significa tenere bassi i prezzi delle derrate alimentari di base che ivi si consumano: l’agricoltura locale ne esce penalizzata perché non è remunerativa; il bilancio commerciale viene rovinato dalla dipendenza da derrate importate (ed eventualmente rivendute a prezzo politico sui mercati urbani). Come tutti possono capire, il gatto si morde la coda. Una popolazione rurale emarginata e incapace di far fruttare il proprio lavoro migrerà in città, acuendo il problema. E chi rimane mantiene una produttività così bassa che persino aree rurali e agricole dipendono da derrate alimentari di provenienza esterna e quindi, di fronte ad un aumento del costo delle stesse, non hanno difese. Viene eliminata quella che poteva essere una opportunità (la relazione città/campagna). Ci sono aspetti ideologici alla base di questa posizione (il controllo delle città è decisivo per il potere; lo sviluppo è industrializzazione, come molti economisti hanno per tanto tempo ritenuto e insegnato ai politici: la famosa frase di Lenin non si discosta da questa idea: lo sviluppo sono i soviet più l’elettrificazione). Più profondamente c’è una mancanza di coscienza del bene comune, sia fra le nazioni (vedi la prima delle cause citate) sia a livello di singoli paesi (e per questo rimando alla seconda).
Come fare a ricostruire tale coscienza? Rispondo un po’ velocemente, quasi per slogan. Innanzitutto incontrando la gente, non solo risolvendo bisogni. Il tema è già stato accennato da Simona Beretta in un suo intervento su queste stesse pagine, quando affermava la necessità di politiche “micro” attente alla vita della gente, politiche capaci di educare ad cambiamento. Io credo che questo punto sia decisivo. Lo sviluppo sostenibile è il “mettersi un moto” di persone e gruppi sociali per l’esperienza e l’evidenza che un cambiamento è possibile. Occorre partire da lì: e questo implica uomini che aiutino nell’accompagnare simili esperienze. Le mie antiche letture di storia dell’agricoltura in Italia mi fanno ricordare che la nostra rivoluzione economica nelle campagne avvenne grazie alle “cattedre itineranti” di agricoltura che, incontrando la gente dove viveva e nei suoi problemi concreti, diffusero conoscenze e opportunità. Crearono cioè quelle capacità che la letteratura sul capitale sociale chiama relazioni “bridging”, ovvero che mettono in dialogo una determinata area o comunità con il più ampio contesto sociale e le sue opportunità. In molti paesi poveri i legami esclusivamente locali, interni ad un determinato gruppo (villaggio, etnia), possono essere forti, ma sono “bonding” e difensivi. Aiutano nelle difficoltà ma non aprono a prospettive. E quando le difficoltà, come nel presente caso dell’emergenza cibo, sono troppo forti, tali legami diventano incapaci di difendere e “saltano” . Questo aspetto educativo è il passo di base. In secondo luogo, dando più “voce” a simili realtà, anche a livello politico, nei singoli paesi: queste azioni devono essere riconosciute, valorizzate e diventare la base di politiche più estese. Credo che l’incapacità dei governi a riconoscere e valorizzare tale lavoro di base (per paura di perdere potere) cancelli una ricchezza d’esperienza che pur c’è e costringa questa stessa esperienza a ricadere in un localismo mortificante e – come detto – difensivo. La coscienza del bene comune nasce infatti da un’esperienza concreta, non è un’idea.In terzo luogo facendo lo stesso a livello di solidarietà e cooperazione internazionale: riconoscendo, valorizzando questo lavoro di base, assumendolo come partner privilegiato; aiutando inoltre gli stati a collaborare, in partnership reale, con il quadro opportuno di politiche. Che è un l’opposto di quello che si sta facendo.
Credo che anche la gestione dell’emergenza parta da questi passi. Va bene creare un “fondo strategico” a livello internazionale o altre misure simili, come giustamente viene proposto. Tuttavia occorre andare più a fondo e gestire l’emergenza valorizzando attori che – per cultura, per vocazione, per DNA starei per dire – siano pronti a continuare il lavoro di costruzione di esperienza con la gente e abbiano l’intelligenza, riflettendo su tale esperienza, di tradurla in proposte di politica come quelle dette, evitando un ulteriore intervento che si ferma al momento assistenzialistico. Perché, a ben vedere, l’aumento dei prezzi potrebbe persino essere un fattore di aiuto per le realtà rurali di determinati paesi a cambiare radicalmente e in meglio.