La pubblicazione del Rapporto Unioncamere 2008 ha il merito di riportare all’attenzione di tutti il ruolo insostituibile della piccola impresa all’interno del nostro sistema produttivo. Il Rapporto mette però anche in luce le difficoltà che nel corso del 2007 le nostre piccole imprese hanno dovuto affrontare e che per molti versi hanno anche saputo superare. Dai dati di Unioncamere emerge infatti come le imprese che esportano siano circa il 34% del totale manifatturiero (contro il 30% del 2006) mentre il valore medio delle esportazioni è cresciuto nel 2007 del 19% per i prodotti in pelle, del 14% per l’arredo, del 12% per i prodotti in metallo, dell’11% per le calzature.
È passata quasi inosservata in Italia la notizia che lo scorso 30 aprile il presidente francese Nicolas Sarkozy e il primo ministro britannico Gordon Brown hanno inviato una lettera al Presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso, nella quale richiedono con forza la elaborazione di concrete misure a favore delle piccole e medie imprese che, si legge nella lettera, «costituiscono un settore vitale del sistema economico e si collocano spesso sulla frontiera dell’innovazione. Nel garantire continuità a questo successo risiede la chiave della futura prosperità dell’economia europea».
Sono parole chiare e impegnative, ed è curioso (e triste allo stesso tempo) constatare come tra gli estensori di questo importante documento non figuri l’Italia, cioè il Paese che più di tutti basa sulla piccola impresa il successo del suo sistema produttivo. Si pensi soltanto che secondo le rilevazioni più recenti pubblicate dall’Istat e che fanno riferimento alla situazione delle imprese italiane nell’anno 2005, delle circa 4,3 milioni di imprese attive nell’industria e nei servizi, con una occupazione complessiva di circa 16,3 milioni di addetti, le cosiddette micro-imprese (ovvero quelle con meno di 10 addetti) rappresentano complessivamente circa il 95% del totale (oltre 4 milioni di imprese), occupano il 48% degli addetti e realizzano il 28,3% del fatturato ed il 32,8% del valore aggiunto. Le piccole imprese (da 10 a 49 addetti) costituiscono invece un po’ meno del 5% del totale (quasi 200mila imprese) e occupano circa il 21% degli addetti. La dimensione media delle imprese italiane è poi di circa 3,8 addetti (e precisamente di 5,9 addetti nell’industria e 3,1 nei servizi). Per quanto attiene ai Paesi dell’Unione europea, secondo i dati Eurostat le micro-imprese rappresentano il 91,5% del totale, forniscono il 29,8% dell’occupazione e il 20,5% del valore aggiunto, mentre gli analoghi dati per le piccole imprese sono il 7,3% (del totale delle imprese), 20,8% (dell’occupazione totale) ed il 19,1% (del valore aggiunto).
Si tratta di dati che non dovrebbero lasciare dubbi sulla importanza quantitativa di questa peculiare tipologia imprenditoriale. Ma anche dal punto di vista qualitativo, ovvero dei valori ideali, le piccole e piccolissime imprese che formano il nucleo del sistema produttivo italiano ed europeo rappresentano una ricchezza senza pari, perché sono caratterizzate da uno straordinario spirito di intrapresa, ovvero da una cultura d’impresa, che significa non solo imprenditorialità, ma anche capacità di assunzione del rischio non disgiunto però dalla responsabilità verso chi partecipa all’impresa stessa.
Alla luce di queste considerazioni, fa davvero riflettere la mancanza di attenzione mostrata dall’Italia, in questa come in altre occasioni, verso un soggetto economico di tale importanza. Per fortuna che in qualche modo la Commissione europea provvede là dove non arriva la miopia dei nostri governanti. Sarà infatti presentata a giugno dalla Commissione stessa una proposta di legge volta, da un lato, a definire lo statuto legale delle piccole e medie imprese e, dall’altro, ad aiutarne lo sviluppo. Lo “Small Business Act” (questo il nome del provvedimento) dovrebbe contenere misure concrete per liberare il potenziale di crescita delle Pmi, riducendo il gravoso carico di burocrazia che oggi pesa su queste attività, favorendone al contempo un più facile accesso al credito.
È molto interessante, dal punto di vista del metodo adottato dalla Commissione, come la elaborazione della proposta sia stata molto opportunamente preceduta da una consultazione pubblica (aperta on-line fino a marzo) che ha consentito a tutte le parti interessate di esprimere opinioni, fornire suggerimenti e indicare elementi di criticità. Dall’analisi delle circa 500 risposte giunte, derivano alcuni interessanti elementi di riflessione. Nell’elenco dei più rilevanti problemi avvertiti dalle Pmi europee, il più sentito è senz’altro il già ricordato peso dei vincoli di tipo amministrativo e regolamentale, seguito dal problema del difficile accesso ai finanziamenti e da quello dell’elevata pressione fiscale. Passando poi all’esame della cruciale relazione tra spirito di intrapresa ed educazione, la stragrande maggioranza dei rispondenti (circa l’84%) ritiene che il sistema educativo non sia abbastanza focalizzato sulla imprenditorialità come valore e che nei curricoli scolastici dovrebbe essere presente un più forte collegamento tra mondo della scuola e mondo delle imprese. Gli insegnanti in primis dovrebbero essere resi più familiari e più vicini alla realtà delle imprese, mentre per tutti gli studenti, a cominciare dai primi anni di scuola, dovrebbero essere organizzati seminari e periodi di tirocinio presso imprese locali. Si tratta di indicazioni di grande buon senso e anche di non difficile attuazione che avrebbero il grande merito di favorire lo sviluppo di quella attitudine e passione alla attività imprenditoriale che è il prerequisito fondamentale perché un Paese consegua gli obiettivi della crescita e dello sviluppo. Spiace constatare come di un dibattito così importante e rilevante in particolare per noi italiani, sui nostri giornali non vi sia stata quasi traccia.
Le Pmi sono una grande forza della nostra economia, spesso lasciate sole in una competizione sempre più aggressiva e difficile da sostenere per un Paese con un debito pubblico di proporzioni mostruose, un divario Nord-Sud che non tende a diminuire, un deficit energetico che pesa come un macigno sulla nostra bilancia commerciale. Per fortuna che, come ci ricorda un passo sempre di straordinaria attualità dell’Enciclica Centesimus Annus «la principale risorsa dell’uomo insieme con la terra è l’uomo stesso. È la sua intelligenza che fa scoprire le potenzialità produttive della terra e le multiformi modalità con cui i bisogni umani possono essere soddisfatti» (Centesimus Annus, n.32). Per crescere e svilupparsi, nonostante le manchevolezze della politica, le nostre imprese dovranno allora investire nell’uomo, perché solo facendo crescere il capitale umano può crescere anche l’impresa. Di qui l’importanza della sussidiarietà che porta alla valorizzazione della persona, alla sua libertà e responsabilità. In un contesto come quello attuale, caratterizzato da una accesa concorrenza e da una dinamica di rapidi cambiamenti, far crescere un’impresa significa permetterle di avere continuità, ovvero permettere che l’impresa stessa si sviluppi “come comunità di uomini”. E, fortunatamente, le nostre imprese la risorsa “uomo” la sanno ancora valorizzare molto bene.