Professor Secchi, un primo commento alle Considerazioni finali del governatore Draghi?

Mi è parsa una relazione buona, ben centrata su alcuni dei problemi di fondo del paese e contenente messaggi molto chiari rivolti al nuovo governo. In particolare per quanto riguarda gli equilibri di finanza pubblica e la necessità di una visione di medio-lungo periodo centrata su una riduzione dell’imposizione fiscale. Cioè la premessa per il recupero della competitività e per il rilancio dell’economia.



Cominciamo dalla riduzione della pressione fiscale.

È ampiamente dimostrabile che esiste una chiara correlazione tra pressione fiscale, livelli di competitività e dinamica dell’economia. Da un lato è evidente che la riduzione della pressione fiscale consente di sostenere la domanda dei consumi e quindi innesca un circolo virtuoso dal punto di vista dell’andamento complessivo della congiuntura; dall’altro la riduzione della pressione fiscale non solo favorisce un migliore uso delle risorse, perché libera risorse per attività presumibilmente più efficienti di quelle svolte dallo Stato, ma rappresenta anche un fattore di stimolo e di attrattività per gli investimenti.



Ridurre le tasse tuttavia è solo il primo passo.

Bene ha fatto il governatore a insistere su questo aspetto, che incide anche nell’immediato sulle aspettative dei consumatori, in quanto sapendo qual è il profilo di pressione fiscale che li aspetta, possono rimodulare le proprie decisioni di consumo nell’immediato. Però la riduzione della pressione fiscale implica un piano organico e pluriennale di riduzione della spesa e del peso dello Stato, per tutti quegli aspetti di cui non vi è apparente giustificazione. È l’unico modo per liberare effettivamente risorse per lo sviluppo. Ma ripeto: il taglio della spesa può essere formulato solamente in un contesto pluriennale o di medio periodo. Però se non si comincia ci ritroveremo sempre a parlarne come di una eterna incompiuta.



Il nostro paese è in difficoltà anche per il basso livello di crescita, che il Governatore non ha mancato di sottolineare.

Negli ultimi anni l’occupazione è aumentata, grazie a una riforma del mercato del lavoro come la legge Biagi, ma la produttività è diminuita. Ricordiamo che il prodotto nazionale è il prodotto aritmetico delle due, ma in una situazione di crescita stagnante se un fattore aumenta l’altro non può che diminuire. È mancata un’azione incisiva sul fronte della produttività e dello stimolo all’attività di investimento.

Draghi non poteva tralasciare i temi della vigilanza bancaria e della politica monetaria della Bce.

La vigilanza bancaria naturalmente è un problema che sta sotto gli occhi di tutti, perché se ci sono stati i guai dell’anno scorso, di cui paghiamo ancora le conseguenze, vuol dire che c’è qualcosa di perfettibile sia dal punto di vista del monitoraggio del sistema bancario, sia dal punto di vista di quanto è riportato attraverso i normali meccanismi di comunicazione ai mercati e alle autorità di vigilanza, e di quanto invece sfugge nelle sue potenzialità, anche di innescare problemi molto seri, come è capitato sul fronte dei derivati e di tutte le attività “quasi” fuori bilancio. Il mercato ha molta più fantasia di quelli che sono preposti a vigilarne il buon funzionamento, quindi è una specie di rincorsa continua. Però il problema c’è e bisogna affrontarlo, stando attenti a non eccedere con regolamentazioni che rischierebbero di diventare oppressive e di soffocare la dinamicità positiva del sistema.

È il nodo della vigilanza continentale.

È anche il tempo di affrontare seriamente il tema di una vigilanza a livello europeo, perché c’è una profonda contraddizione tra il fatto che abbiamo un sistema bancario e finanziario che sempre più si integra e opera su scala continentale, nell’area dell’euro ma anche oltre, e il fatto che la vigilanza è demandata alla competenza nazionale. E non ha molto senso. Poteva essere comprensibile 10 anni fa, con il debutto dell’euro e con l’esigenza per le banche centrali di mantenere un ruolo significativo. Ma questo ora mostra tutta la sua inefficacia – o comunque evidenzia ampi margini di miglioramento.

È chiaro che le crisi finanziare non potranno essere evitate completamente, visto che l’assunzione di rischi da parte delle banche fa parte delle “regole del gioco”. Nonostante ciò lei pensa che Basilea 2 possa diminuire l’impatto sul sistema finanziario di una futura crisi finanziaria?

Basilea 2 riguarda le attività che potremmo definire “tradizionali” delle banche, cioè correla meglio la capacità di credito delle banche stesse, quella che possono offrire al mercato, con la qualità del credito. Credo in realtà che il maggior lavoro da fare sia dove la qualità del credito è difficile da valutare. Per intenderci, le agenzie di rating hanno dimostrato tutta la loro inadeguatezza, dando il “triple A” ad autentici potenziali flop. Queste e altre modalità operative sono molto utili ad esaltare il ruolo positivo della finanza globalizzata, che consente di aumentare il grado di liquidità disponibile e di ripartire il rischio su una pluralità notevole di soggetti; però questo rischio deve essere in qualche modo quantificato e tenuto nel debito conto, altrimenti Basilea 2 rischia di diventare una presa in giro.

Il governatore Draghi ha affermato che il paese ha desiderio, ambizione e risorse. Occorre liberarle. Il nuovo governo riuscirà secondo lei a superare le forti opposizioni al cambiamento e a non lasciarsi intrappolare dall’immobilismo?

Mi è piaciuto molto l’accenno fatto ai giovani, e non solo alla loro legittima aspettativa di un futuro coerente con la propria visione, i propri progetti e le proprie attese. È un tema che va legato a quello della produttività e dell’investimento in capitale umano, in ricerca, in istruzione e in formazione, tutto ciò che valorizza la componente a più elevato potenziale che sono appunto i giovani.

Una relazione complessivamente improntata all’ottimismo, come non si è mancato di sottolineare fin dalle prime reazioni.

L’ottimismo è giustificato dal fatto che la situazione politica consente a chi è al governo di intervenire in modo incisivo nell’interesse a lungo periodo del paese, spezzando o contrastando situazioni di mero conservatorismo, di tutela di privilegi, di aree di rendita, di sacche di inefficienza che si sono andate sedimentando e che ostacolano il nostro povero paese. Il nuovo governo, con la maggioranza che si ritrova e forte di un programma che ha ottenuto un consenso così ampio, non può assolutamente sottrarsi a questo compito. La parola chiave è modernizzazione, ma non per coniare l’ennesimo slogan, ma perché è ciò di cui l’Italia ha bisogno per scrollarsi di dosso le inefficienze e innescare un meccanismo di crescita più sostenuta dell’attuale. Così facendo si fa l’interesse di tutti, anche quello di coloro che pensano nell’immediato di subire perdite e sacrifici.
Tutto ciò deve avvenire in un contesto di inflazione la più bassa possibile, e con questo tocchiamo il ruolo della Bce. La disciplina di bilancio per quanto riguarda i governi e il rigore nella condotta della politica monetaria non possono essere assolutamente abbandonati, se non vogliamo ritrovarci nell’“Italietta”degli anni ‘90 con una situazione completamente fuori controllo. Allora sarebbe realmente ridicolo parlare di prospettive per il futuro.