Per una volta possiamo dire «Dio benedica l’Unione Europea!». L’apertura di una procedura di infrazione nei confronti di Alitalia per il prestito ponte da 300 milioni di euro, ritenuto da Bruxelles una distorsione del mercato e della concorrenza, potrebbe diventare il pungolo necessario affinché il governo abbia il coraggio di affrontare la situazione e smetta di paventare fantomatiche cordate italiane, che altro non sono che il recupero della cordata AirOne-Intesa con un possibile rientro di Air France come partner industriale a pateracchio fatto.
 



Qualche dato può chiarire meglio le ragioni di questo giudizio così tranciante. Negli ultimi sei mesi Alitalia ha avuto ricavi straordinari dovuti alla vendita di azioni, di slot, di opzioni sul carburante e rimborsi tributari per almeno 250 milioni di euro, oltre al prestito ponte da 300 milioni (tra l’altro sottratti alla ricerca): bene, nonostante queste entrate la disponibilità finanziaria netta a breve a fine aprile era di soli 30 milioni di euro. Uno scandalo e un insulto verso il mercato e i contribuenti.
Non è un caso, in tal senso, che l’avversario più agguerrito del prestito ponte – anche in sede Ue – sia British Airways, classico esempio di come una sana gestione basata su mercato, competizione e produttività possa risolvere anche le crisi più gravi. Basti partire dalla brillante performance del vettore britannico nell’esercizio finanziario che si è concluso il 31 marzo scorso: il fatturato è risultato in crescita del 3,1% a 8,753 milioni di sterline, l’utile operativo si è attestato a 875 milioni contro i 602 dell’esercizio precedente, mentre l’utile ante imposte è stato di 833 milioni di sterline contro i 611 del 2007 e l’utile netto si è attestato a 680 milioni (corrispondenti a 857 milioni di euro). In percentuale, un aumento dei profitti del 45%. I risultati sono stati giudicati “ottimi” dalla compagnia aerea, in particolare considerando che sono stati conseguiti «nonostante la continua crescita del costo carburante», per cui sono stati spesi 2 miliardi di sterline e «il rallentamento economico dovuto al credit crunch» innescato dalla crisi dei subprime. La performance ha indotto British Airways ad operare la prima distribuzione del dividendo dal 2001. Qui, invece, sul titolo Alitalia la Consob avvia controlli per possibile aggiotaggio.
 



Ma cifre a parte, questo piccolo miracolo si circostanzia anche in altri dettagli, ritenuti normali a Londra ma descrivibili come lunari in Italia. Willie Walsh, l’amministratore delegato di British Airways, ha infatti rinunciato al proprio bonus annuale di 625.000 sterline come risposta al caos che accompagnò l’apertura del Terminal 5 di Heathrow nel mese di marzo: «Ho ritenuto inappropriato ottenere un bonus a fronte dei disagi che abbiamo causato ai passeggeri». Ma si sa, nei regimi di libero mercato vige la meritocrazia e chi sbaglia, paga: soprattutto quando si occupano posizioni dirigenziali e per questo si è profumatamente retribuiti. Tre giorni dopo l’inaugurazione del Terminal 5, infatti, saltarono le teste di Gareth Kirkwood, direttore delle operazioni e di David Noyes, responsabile dei servizi al cliente. Willie Walsh resistette alle pressioni e il bilancio presentato un mese fa – insieme al suo beau geste – sono la risposta alla fiducia accordatagli dagli azionisti.
 



Risultati ottenuti però anche attraverso politiche coraggiose e impopolari seguite allo shock per il mercato aeronautico degli attentati del 2001 contro New York. Il 20 settembre 2001, infatti, la dirigenza di British Airways annunciò il taglio di 7.000 posti di lavoro e una riduzione del 10% nel numero di voli: occorrevano scelte drastiche, sia per l’operatività industriale sia perché il mercato e gli investitori le reclamavano a gran voce. Nel 1997 un’azione di BA valeva 760 pence, il 20 settembre 2001 era scambiata a 150 pence: in quattro mesi, da giugno a settembre, il calo nel valore era stato del 60%, con un ulteriore -42% dopo gli attacchi alle Torri Gemelle. Le perdite previste nell’ultimo quadrimestre di quell’annus horribilis erano stimate in 200 milioni di sterline. Servì ma poco, molto poco. E infatti il 15 febbraio del 2002 l’allora amministratore delegato, Rod Eddington, annunciò altri 5.800 tagli al personale, raggiungendo la quota di 13.000 licenziamenti in sei mesi. «Perdiamo due milioni di sterline al giorno, o interveniamo o falliremo. Dobbiamo risparmiare 650 milioni di sterline in due anni», disse a brutto muso Eddington ricordando che quei tagli non sarebbero stati gli ultimi: il piano di ristrutturazione prevedeva che entro il marzo del 2004 la forza lavoro totale di British Airways sarebbe arrivata a un totale di 43.700 unità, 20.000 in meno rispetto al 2002. I tagli riguardavano tutti: ingegneri, hostess e steward, piloti, personale di terra nei due aeroporti londinesi di Heathrow e Gatwick e personale impegnato nell’handling e nel cargo.
Se a questo uniamo una strategia di marketing aggressiva (compresa la vendita di biglietti on-line) e un atteggiamento collaborativo da parte dei sindacati si capisce come già nell’ultimo trimestre 2003 British Airways realizzò gli utili maggiori da 12 anni: 125 milioni di sterline.
 

Nessuna bacchetta magica, quindi, solo realismo. Ciò che manca al governo italiano oggi, la cui uniche priorità dovrebbero essere quelle di continuare con il piano Prato – ovvero con il taglio dei voli in perdita e la diminuzione al massimo dell’utilizzo degli aerei meno recenti al fine di ridurre il consumo di carburante -, di accompagnare alla riduzione dell’offerta anche quella del personale, tagliando come stanno facendo altre linee aeree mondiali meno in crisi di Alitalia e soprattutto di liberalizzare al più presto le rotte intercontinentali su Malpensa non ancora aperte alla concorrenza. Facendo questo – e spalmando sull’intero settore del mercato aereo italiano il decreto per il prestito a mò di intervento eccezionale, evitando l’accusa di distorsione della concorrenza – forse per la compagnia della Magliana potrà esserci ancora un futuro.
 

(Foto: Imagoeconomica)