Ci vorrà ancora tempo per comprendere fino in fondo tutti i dettagli, del centinaio di punti diversi in cui è articolato il disegno di legge che si accompagna al decreto con cui Berlusconi e Tremonti hanno presentato il biglietto da visita del governo in politica economica. Ma da subito si comprende che è un cambio d’orizzonte complessivo, rispetto al biennio prodiano. Dal più tasse, più gravami e più spesa pubblica dell’Unione, all’esatto opposto. L’azzeramento del deficit al 2011 come promesso da Prodi all’Europa non viene rinviato alla prossima finanziaria. L’esperienza negativa delle dilazioni che nutrivano i dubbi e facevano perdere incisività al Silvio III, tra 2001 e 2006, ha fatto lezione. I colleghi di governo e le autonomie si vedono subito presentato il conto che ciascuno dovrà onorare, per centrare l’obiettivo. Sono 35 miliardi di euro in 3 anni, nella massima parte finalmente di minori spese. “Meno spesa”è la cura giusta, in un Paese in cui adottando gli standard efficienti di servizio pubblico in sanità, assistenza e previdenza si individuano almeno 80 miliardi di sprechi, come scrive l’ottimo professor Luca Ricolfi, insospettabile di berlusconismo.
Così facendo si libera tempo prezioso, nella tradizionale sessione di bilancio autunnale, per la riforma fiscale vera di questa legislatura. La più attesa da noi che tifiamo per la sussidiarietà. Il federalismo fiscale. Il Capo dello Stato, le Autonomie e l’opposizione sono stati chiari: non si approva il federalismo senza un confronto approfondito. Con la manovra a giugno, il governo pone le premesse per un dibattito serio, tra settembre e dicembre. Per stabilire quale sia la soglia di perequazione a vantaggio delle Regioni meno avanzate ma abbandonando il principio inefficiente della copertura dei costi storici, che hanno premiato i più inefficienti. E per decidere con chiarezza quali – pochi – grandi tributi lasciare alla piena competenza locale, e quali allo Stato. Con tanto di devoluzione alle Autonomie anche di parti congrue del demanio pubblico, in maniera che d’ora in poi abbiano attivi patrimoniali da mettere a reddito e a fronte dei propri debiti, che altrimenti finiscono sul groppone dello Stato e di noi tutti. Come nel caso di Roma.
I pilastri della manovra varata ieri sono mirati a esercitare effetti più sull’offerta aggiuntiva, che sulla domanda. E’ questo il sentiero scelto dal governo per sostenere la crescita. Si spiegano così le abolizioni di una fitta coltre di gravami aggiuntivi introdotti da Prodi e Visco con la scusa della lotta all’evasione, in realtà per accrescere indirettamente la produttività costringendo un paio di milioni di lavoratori autonomi a diventare lavoratori dipendenti, e tante piccole imprese a chiudere i battenti. La cancellazione di obblighi come il reintrodotto libro clienti-fornitori, dei massimali bassissimi per gli assegni non trasferibili, dell’obbligo di fido bancario per i creditori del fisco, il concordato fiscale fino a 20mila euro d’imposta, rispondono tutti a questo obiettivo.
In attesa dei contratti decentrati e del salario di produttività, si torna intanto a più flessibilità e alla legge Biagi originale, in materia di mercato del lavoro. Di qui il ritorno del lavoro su chiamata, modifiche alle rigorosissime eccezioni che erano sopravvissute, per motivare la persistenza di contratti a tempo determinato invece di trasformarli automaticamente in assunzioni permanenti. Di qui una tendenziale parificazione tra lavoro privato e pubblico, che è alla radice del piano industriale della Pubblica amministrazione, promesso da Brunetta e che nella manovra ha iniziato a prendere forma. Senza prendersela solo coi fannulloni. Perché ci sono anche limiti alle stock option per i manager pubblici e un taglio ai compensi e alla numerosità dei Cda delle società pubbliche. Aggiungete tempi e procedure stringenti per il nuovo piano energetico che spetterà al ministro Scajola pilotare, in modo da realizzare entro un numero non troppo elevato di anni una percentuale non simbolica di nucleare, per riequilibrare il mix energetico troppo spericolatamente squilibrato verso gas e petrolio. E infine gli spunti che io definisco di ordine “culturale”. Ne fanno parte la Robin Tax su petrolieri, banche e assicurazioni, cioè a carico dei settori che hanno realizzato i maggiori boom ai propri profitti per la finanza derivata, che pesa invece sui mutui immobiliari e alla pompa di benzina. Ma anche l’identificazione concreta delle risorse e procedure per il piano casa-popolare e per il cosiddetto social-housing. E insieme le norme a favore di una decisa liberalizzazione accompagnata da una sensibile apertura ai privati nelle utilities locali, per la gestione dei servizi pubblici con obbligo di gara e caduta delle concessioni e gestioni in house: tutto ciò che la legge di Linda Lanzillotta prometteva all’inizio, e che mai fu tradotto in legge dal centrosinistra.
Parlo di spunti “culturali” perché definiscono a mio modo di vedere un liberalismo compassionevole, fortemente intriso di sociale e di attenzione per i ceti a reddito basso e medio-basso, di cui Giulio Tremonti e in realtà l’intero governo sono questa volta convinti alfieri. Non è la mera riproposizione di un liberismo d’antan. Farà probabilmente arricciare il naso a qualche professore ed editorialista sedicente liberista, ma deriva dalla riflessione sulla crisi finanziaria in atto da oltre un anno sui mercati, e sugli effetti sperequativi che essa ha finito per produrre in una società già troppo immobilizzata da statalismi e dirigismi di troppo.
Non intendo vedere solo motivi di soddisfazione e nessuna perplessità. Le resistenze saranno tante, e già ieri hanno preso a manifestarsi. Ma se davvero le misure vengono approvate entro la pausa agostana e sopravvivono a chi vorrà stravolgerle e attutirle, è il meglio che il governo abbia mostrato sinora. E promettono, soprattutto, più ancora di quel che attuano, per esercitare appieno l’effetto di una crescita del Pil non ferma sullo zerovirgola, per il 2008.