Professor Cicchetti, quali sono le caratteristiche principali e peculiari di una struttura sanitaria, che la rendono diversa da altre tipologie di organizzazioni?
La struttura sanitaria è diversa da tutte le altre intanto per la sua missione e i suoi obiettivi. Nel senso che una struttura sanitaria ha obiettivi che vengono fissati da una pluralità di attori: innanzitutto ci sono i pazienti, le persone che hanno diritto a riceve l’assistenza per quello di cui hanno bisogno. Accanto a questi ci sono però le istituzioni pubbliche, che hanno interesse non tanto a fornire l’assistenza sanitaria e mettere a disposizione le risorse per i singoli, ma per la collettività. È una prospettiva un po’ diversa.
La salute del paziente non è l’unico obiettivo della struttura?
Sì, certamente. Ma non solo. Vado avanti: chiaramente ci sono gli obiettivi che si pongono gli operatori, che sono quelli di fare un buon lavoro in termini di efficacia tecnica. Che a sua volta è diversa dalla prospettiva di un paziente per il quale l’efficacia tecnica è solo una componente. E poi in ultimo ci sono quelli che gestiscono le strutture, chiamiamoli manager, che hanno a cuore l’efficienza. Si vede bene che in nessun altro contesto esistono così tante prospettive e così tanti valori differenziati come nella sanità. Chiaramente c’è sempre il paziente “nel mezzo”, però sta all’interno di una trama estremamente complessa, perché sono complessi gli obiettivi e perché è complesso il sistema dei valori dei quali è fatta la sanità.
Una vera e propria struttura aziendale?
Bisogna specificare. Un’organizzazione sanitaria non può funzionare come un’industria automobilistica. Cioè il livello di formalizzazione e standardizzazione dei processi è necessariamente legata alla personalizzazione delle cure: le cure devono essere personalizzate, ritagliate non solo sulle esigenze cliniche della persona ma anche sulle caratteristiche psicologiche, umane. È evidente che questo genera tutta una serie di complessità. Poi c’è una questione legata ai processi di decisione.
Vale a dire?
I processi di decisione in una struttura sanitaria sono molti decentrati. A decidere è il medico. Rispetto ad un’azienda industriale, dove molte decisioni vengono prese al vertice, in sanità le decisioni vengono prese “sul campo di battaglia”, diciamo così, cioè dove si lavora. E dove ci sono tante decisioni discrezionali, il problema del coordinamento della gestione diventa rilevante.
Qual è il suo giudizio sul processo di aziendalizzazione che ha investito le strutture sanitarie dalla metà degli anni ‘90? Secondo lei il sistema è migliorato oppure no?
Secondo me è migliorato. L’aziendalizzazione ha fatto bene. Per un motivo molto semplice: dal momento che uno crea delle autonomie e delle responsabilità a livello di struttura e sono autonomie e responsabilità chiaramente tecniche, anche se c’è la politica che incide molto, l’aziendalizzazione ha portato a responsabilizzare le unità organizzative, cioè quelle strutture che producono l’assistenza. Sicuramente sotto il profilo economico, e questo è l’aspetto che si sottolinea di più, ma anche dal punto di vista dell’efficacia. Poi, tra l’altro, le due cose non sono disgiunte.
Si spieghi.
Fino a quando queste istituzioni erano pagate, come si suol dire, “a piè di lista”, cioè tu spendi e io ti ridò indietro i soldi che hai speso, nessuno aveva interesse a fare attenzione, per esempio, alla durata della degenza in ospedale. Ma attenzione: durata della degenza in ospedale non vuol dire che quanto più stai in ospedale tanto meglio stai. Innanzitutto rimani fuori da una vita normale, ma soprattutto stare in ospedale, purtroppo, ha dei rischi: come quello delle infezioni ospedaliere, che non sono così rare, anzi. Allora l’aziendalizzazione ha generato degli incentivi che hanno portato a responsabilizzare la dirigenza su fattori di efficienza e anche di efficacia. Da questo punto di vista è positiva. Poi, certo, possono emergere distorsioni.
Visti i recenti casi di malasanità (come quello della Clinica Santa Rita, ma anche del Policlinico Umberto I pochi mesi fa), quali interventi bisognerebbe adottare per rendere l’attività delle strutture sanitarie più monitorata, più sicura e trasparente?
Serve un sistema di incentivi che funzioni e che porti le strutture ad essere più efficienti, più efficaci e ad evitare gli sprechi, ma questi incentivi devono essere commisurati alla presenza di controlli adeguati. Gli americani e gli inglesi parlano di “check and balance”, cioè se tu da un lato generi un incentivo finanziario dall’altro devi controllarlo.
Lei parla sia di pubblico che di privato?
Io parlo di tutti, pubblico e privato, perchè non è che cambia molto, cambia purtroppo la performance, il livello di efficienza. Per tornare a quel che si diceva, abbiamo anche generato – attraverso il nostro sistema di pagamento a prestazioni – degli incentivi che hanno migliorato il sistema. Quello che siamo stati meno bravi a fare è stato creare il sistema di controlli che permettono al sistema di funzionare. Che cosa intendo dire? Che attività di controllo non è semplicemente il fatto di controllare le cartelle cliniche. Quello è sacrosanto e va assolutamente potenziato, perchè questo permette di migliorare il livello di appropriatezza delle strutture, cioè porta le strutture a fare solamente le cose di cui si ha bisogno. Quindi, per intenderci, corrispondenza tra prestazione e paziente.
Ma non c’è solo questo, diceva.
No, infatti. Perchè poi un sistema di pagamento come questo ha bisogno, per funzionare, anche di essere aggiornato costantemente. È la cosa di cui si sta parlando in questi giorni. Il sistema sanitario nazionale si è dimenticato che quelli regionali vanno aggiornati ogni sei mesi. Perchè? Perchè cambiano le tecnologie, vengono fuori procedure nuove: una volta la cataratta la si faceva in ricovero ordinario, oggi la tecnologia permette di farla tranquillamente in day hospital, con tecnologie non invasive. A questo punto il modo di pagare quella prestazione deve essere diverso. Quindi per funzionare un po’ meglio questo sistema ha bisogno da un lato di mantenere gli incentivi e dall’altro di rafforzare i controlli. E non solo: le Regioni devono avere la capacità di monitorare le perfomance delle strutture, ma poi anche il coraggio – ed è un coraggio politico – di allocare le risorse laddove vengono meglio utilizzate, indipendentemente che questo coinvolga il pubblico o il privato.
Quest’ultimo è un aspetto che eredita forti obiezioni di principio.
È invece un problema di responsabilità nei confronti dei cittadini. Le risorse sono pubbliche sia che vadano in un ospedale pubblico sia che vadano in un ospedale privato non for profit. Al cittadino ciò interessa è che la Regione abbia la capacità – e quindi gli strumenti – per identificare quali sono le strutture dove l’investimento rende di più in termini di efficiacia, in termini di salute prodotta. Io ho una predilezione verso il privato non for profit per un motivo molto semplice: perchè il tipo di incentivi che si generano in una struttura non for profit sono quelli dell’ottimizzazione dell’attività economica ma finalizzata ad un reinvestimento nella medesima attività, non ad un reinvestimento in un’attività diversa. Le Regioni devono imparare a scegliere sulla base di parametri oggettivi di efficienza e di efficacia. Se il pubblico non funziona, non funziona: bisogna investire altrove. Se il pubblico funziona ben venga, investiamo nel pubblico.
In Regione Lazio, come in Lombardia, vi è una cospicua presenza di strutture private accreditate che operano entro il Sistema Sanitario Regionale: secondo lei questo modello funziona bene? Vede delle criticità?
Sono due sistemi profondamente diversi. Sembrerebbero molto simili perchè ci sono tante strutture private sia for profit sia non for profit. Tra l’altro nella regione Lazio la quota del non for profit, cattolico soprattutto, è altissima. Il 27% della quota di mercato è di strutture che appartengono a istituzioni religiose. In Lombardia è molto più bassa, circa il 9%. Nel rapporto pubblico-privato sono molto simili, ma in realtà dentro la quota del privato sono molto diverse. Però, al di là di questo, la Lombardia ha fatto un fortissimo investimento in termini di programmazione, di capacità e di controllo del sistema. Sembra strano dirlo adesso, con quello che è successo al Santa Rita, ma in realtà è così. La Lombardia è stata in grado di governare questo sistema incrementando l’offerta ai cittadini, puntando sulla libera scelta, e i risultati sono stati molto positivi non solo in termini di equilibri economici ma anche di soddisfazione dei cittadini. Ripeto: dobbiamo andare oltre i singoli casi e guardare a quello che è successo in media in questi anni. Per la Regione Lazio non possiamo dire la stessa cosa. Ha una struttura dove il privato è molto forte, ma non c’è stata la capacità della Regione – quindi a questo punto del regolatore pubblico – di programmare, organizzare, strutturare e controllare il sistema. Dobbiamo tanto migliorare da questo punto di vista.
Quali sono, a suo avviso, le criticità del sistema lombardo?
La criticità del sistema lombardo sta nella crescita, forse in alcuni casi eccessiva, dell’offerta di servizi soprattutto in alcune aree cliniche, come la cardiochirurgia. Secondo me un maggiore controllo sulla struttura di offerta ci vuole, gioverebbe. Forse i sistemi di accreditamento, proprio in una regione come la Lombardia, dovrebbero essere ancora più rigidi di quanto lo siano adesso, per rendere ancora più virtuoso il sistema.
Lei ha appena ultimato una ricerca sulla ripartizione delle quote di mercato in sanità tra strutture pubbliche e private: può dirci sinteticamente i principali risultati emersi da questa indagine? Qual è la sua valutazione?
Emergono i seguenti risultati: negli ultimi cinque anni, o meglio dal 2001 al 2005 perchè il 2005 ha fornito gli ultimi dati disponibili, abbiamo visto una riduzione della presenza del settore pubblico – parliamo di assistenza ospedaliera in campo nazionale – di circa 2,4%. Questo 2,4% è andato al privato. Ma di questo privato quello a crescere di più è il privato for profit, cresciuto di quasi il 20% in questo periodo. È cresciuto invece di meno il privato di ispirazione cristiana, dal San Raffaele di Milano al Policlinico Gemelli di Roma. Questi sono cresciuti ma in una proporzione molto più bassa, parliamo dell’8%. Questo il trend generale. Da un punto di vista delle differenze regionali abbiamo visto molte differenze, cioè le strutture interne dei mercati delle diverse regioni sono assolutamente incomparabili l’una con l’altra. Sembra di stare in Paesi diversi. Mentre la Regione Lazio è una regione dove sono praticamente rappresentate tutte quante le tipologie istituzionali, dove la presenza del privato è molto forte, ma sia del privato cattolico non for profit sia di quello for profit, la Regione Lombardia invece vede una presenza forte sì del privato – soprattutto for profit – ma comunque una quota importantissima di assistenza sanitaria offerta dalle aziende ospedaliere pubbliche. Totalmente diversa è la struttura dell’Emilia Romagna, dove è quasi tutto pubblico e dove c’è un privato anche rilevante ma for profit e quindi quello non for profit è molto, molto circoscritto. Interessante vedere come la quota privata sia cresciuta in particolare in due regioni, Lazio e Abruzzo, mentre quella pubblica è rimasta più o meno la stessa in tutte le regioni.