Ci potrebbe descrivere come si articola la filiera di produzione, commercio e distribuzione del petrolio?
Il petrolio viene estratto in molte aree del mondo, spesso in condizioni climatiche e geografiche complesse o proibitive, da società specializzate. Talvolta queste società sono di proprietà dei Governi che possiedono i giacimenti, talaltra sono società quotate e indipendenti dai Governi, che operano in varie aree del mondo corrispondendo una royalty al Paese ospitante.
Una volta estratto, il petrolio viene raffinato per ottenere i prodotti finiti che siamo abituati ad usare: benzina, gasolio, Gpl e anche bitume e olio combustibile.
Le raffinerie sono spesso legate a una struttura commerciale (cioè ad un marchio petrolifero), ma ve ne sono anche di indipendenti che percepiscono un corrispettivo per il servizio di raffinazione svolto per terzi (un po’ come i mulini facevano una volta con il grano). Il prodotto finito viene poi portato (via nave, via treno o via tubo principalmente) a depositi vicini alle aree di consumo. Da questi il prodotto giunge via autobotte alle stazioni di servizio sulle nostre strade (il cosiddetto canale “rete”), o a rivenditori specializzati (il cosiddetto canale “extra rete”).
Depositi e trasportatori sono spesso fornitori di logistica indipendenti dalle società petrolifere. Il mercato finale è in parte gestito dalle società petrolifere, e in parte da operatori indipendenti che acquistano sul mercato i prodotti finiti.
Negli ultimi tempi si parla molto di “Robin Tax”: su quale punto della filiera inciderebbe l’applicazione di una imposta simile?
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Tale tassa vorrebbe colpire gli “extraprofitti” generati dal grande aumento dei prezzi del petrolio di questi mesi. Ammesso che si accetti la logica in base alla quale lo Stato deve intervenire contro il mercato e la sottostante ideologia che si oppone al profitto o a parti di esso, tale intervento dovrebbe incidere sulla produzione, dove il brusco aumento dei prezzi ha generato margini alti a chi ha concessioni petrolifere.
È però difficile per l’Italia intervenire su concessioni in Arabia Saudita, Venezuela o in Russia per fare degli esempi, dunque l’intervento viene focalizzato su attività in Italia (detenzione di scorte, attività di commercializzazione) che in alcuni casi non beneficiano, o sono penalizzate, dagli alti costi del petrolio.
Questa scelta mi preoccupa perché non credo utile per il sistema tassare le attività economiche in modo diverso, e mi chiedo se con un prezzo del petrolio basso il Governo vorrà detassare le società petrolifere, o se lo stesso principio sarà applicato al ferro (è raddoppiato negli ultimi due anni), o al rame, o alle aziende agricole che producono grano e mais. Un sistema di tassazione del reddito legato all’andamento dei prezzi internazionali delle materie prime rischia di essere demagogico, instabile e inefficace.
Anche Barack Obama parla di introdurre una sorta di “Robin Tax”: in cosa è diversa la situazione della industria petrolifera italiana da quella americana e per quali ragioni?
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Barack Obama nel suo programma chiede di eliminare una serie di agevolazioni fiscali e sussidi di cui attualmente godono le società petrolifere negli Usa, ma non di introdurre una tassazione differenziata per settore economico. Ha inoltre proposto un sistema fiscale per la riduzione delle emissioni con un ambizioso obiettivo per il 2050, e promesso di sostenere, anche con sussidi e quote obbligatorie, lo sviluppo dei biocarburanti.
L’economia americana ha una forte dipendenza dall’estero per l’energia, e con l’indebolimento del dollaro ha subito in modo maggiore dell’Europa l’aumento dei prezzi del petrolio. Gli Usa hanno però una maggiore diversificazione delle fonti energetiche, una produzione petrolifera nazionale, e una componete della produzione energetica da nucleare e carbone (su cui Obama punta) assai più significativa di quella italiana. L’Italia dipende quasi interamente dall’importazione di prodotti petroliferi e gas naturale e dunque assai più di altri Paesi soffre l’aumento del prezzo del petrolio.
In che misura incidono le manovre speculative sull’aumento del prezzo del petrolio e su quale fase della filiera vengono attuate?
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È assai difficile dire quanto la speculazione incida sull’andamento del prezzo delle materie prime, e vi è un dibattito su questo tema tra le principali menti finanziarie del mondo. È però interessante osservare che sul mercato dei derivati si scambiano giornalmente quantità di greggio anche 10 volte superiori al consumo fisico (che è di circa 85 milioni di barili/ giorno). La speculazione (“guardare lontano”) è un’attività importante per i mercati e benefica nel senso che fornisce un indirizzo e corregge le inefficienze. Il dibattito più attento su questo tema è quello che si concentra sul costo dell’attività speculativa, che a parere di alcuni è oggi assai basso: si può cioè prendere una posizione che scommette sul rialzo o sul ribasso del prezzo del petrolio con un impiego modesto di capitali.
Prescindendo dalla speculazione, quali sono le cause principali degli aumenti di prezzo: la maggior domanda cinese e di altre economie in sviluppo, la debolezza del dollaro, il mancato aumento della produzione (a parte l’Arabia Saudita), le tensioni geopolitiche?
La rapida crescita delle economie in sviluppo ha fatto aumentare in modo inusuale la domanda di petrolio, mentre la produzione per molti anni era rimasta statica o in diminuzione, perché i bassi prezzi del greggio non giustificavano i costosissimi progetti di esplorazione. Questa situazione si è ora ribaltata, ma i progetti di esplorazione e produzione di greggio possono richiedere anche più di dieci anni per entrare in funzione, e dunque il mercato risponde con lentezza al rapido cambiamento della domanda. Non si è ancora verificata una situazione in cui il mercato fisico della produzione non sia riuscito a rispondere, ma la capacità produttiva libera è contenuta e con gli attuali prezzi del petrolio anche la domanda si sta contraendo.
In questa situazione pesano di più le tensioni geopolitiche, perché basta una singola situazione di crisi per far salire repentinamente il prezzo del greggio. Anche la debolezza del dollaro e la posizione fin qui tenuta dai principali Paesi produttori, che dicono che la produzione fisica è più che sufficiente, hanno una influenza sull’andamento del prezzo del petrolio. C’è infine un’altra ragione, che incide sul costo alla pompa dei prodotti finiti, e cioè che per molti decenni non si è investito nella raffinazione. Questo è avvenuto sia perché i ritorni di tali investimenti erano bassi, sia perché l’opposizione di movimenti ambientalisti ha efficacemente bloccato, non solo in Occidente, i progetti di sviluppo pure proposti da alcune società del settore. Ora l’investimento nella raffinazione è ripreso, soprattutto nei Paesi dove il consumo è in crescita, come l’India o la Cina, ma anche in Occidente si investe nell’ammodernamento e potenziamento delle raffinerie esistenti. In questo contesto occorre dire che l’Italia, e il Mediterraneo in generale, hanno ancora una capacità di raffinazione elevata ed efficiente.
Con prezzi così elevati del greggio, possono diventare convenienti altri tipi di giacimenti (per esempio sabbie e scisti bituminosi) e con che conseguenze?
È un positivo esempio dell’operare del mercato che con prezzi alti del greggio si sviluppi non solo la sua produzione anche in giacimenti più costosi, ma anche la produzione di energia da altre fonti sin qui poco economiche da sviluppare. Sabbie e scisti bituminosi sono una fonte di petrolio finora assai poco sfruttata per i suoi alti costi, ma a questi prezzi del petrolio la ricerca in quel settore è ripresa con forza.
Anche i biocarburanti, assai poco competitivi col petrolio a 20 dollari, ora sono una realtà importante, e il loro consumo favorisce la ricerca in quel settore. Nel tempo tutti questi fattori dovrebbero operare per contenere la domanda di greggio ed il suo prezzo.
Fino a che livello può arrivare in futuro il prezzo del greggio? È pensabile che il petrolio possa diventare un bene rifugio?
Il petrolio, come altre materie prime, è già considerato da molti un bene rifugio. È però ben difficile prevedere quale sarà la tendenza del suo prezzo: le variabili che lo influenzano sono numerose e complesse, in questa chiacchierata ne abbiamo toccate più d’una, e autorevoli investitori e operatori del settori esprimono su questo tema previsioni diametralmente opposte. Io credo che una scelta dei Paesi consumatori di attuare una politica di diversificazioni delle fonti, di risparmio e di incentivo alla ricerca nei nuovi settori dell’energia dovrebbe nel tempo allentare la pressione sul prezzo del petrolio.
Si comincia ad ipotizzare una società post-petrolio, con il nucleare e nuove fonti di energia: come si sta già oggi comportando l’industria petrolifera e come vede la situazione futura?
L’industria petrolifera non ha un comportamento monolitico davanti ai grandi cambiamenti che stiamo vivendo. L’industria petrolifera dei Paesi produttori investe nello sviluppo della raffinazione e della chimica, attività con un forte contenuto tecnologico e di innovazione che in Europa sono state via via emarginate nella politica industriale dei principali Paesi. Le grandi società petrolifere quotate hanno rinnovato la loro attenzione alla esplorazione e sviluppo di nuovi giacimenti, ma quasi tutte hanno anche diversificato in altri settori di produzione dell’energia, essendo attive nel gas, nel carbone, e con attenzione alle fonti alternative. Infine appaiono sul mercato nuovi operatori nel campo dell’energia eolica e fotovoltaica, e soprattutto nei biocarburanti. Un loro sviluppo farebbe infatti diventare operatori di rilievo nel mercato dell’energia Paesi con un forte potenziale agricolo inespresso, e aziende sin qui associate alla filiera agroalimentare.
Questo fenomeno sta già avvenendo in Paesi ricchi d’acqua e di terra fertile e pianeggiante, che oggi sono ai margini dello sviluppo mondiale, e che potrebbero tra 30 anni essere potenze energetiche.