Lei ha intitolato il suo ultimo libro “Rebus energetico”. Quali le ragioni di questo rebus?

Il rebus parte da quattro constatazioni. La prima è che da quando si è avviata la nuova crisi energetica, che ha portato i prezzi del petrolio dai 18 dollari al barile del 1999 agli attuali 140, nulla è accaduto: né sul piano delle politiche pubbliche né, tanto meno, checché se ne dica, sul piano del mercato. Semplicemente non vi è stata alcuna risposta, diversamente da quel che accadde con le crisi degli anni ‘70, che furono riassorbite nell’arco di un decennio. Agli altissimi profitti che l’aumento dei prezzi ha generato nell’attuale crisi, non ha corrisposto una parallela crescita degli investimenti. Domanda che continua a crescere e vuoto degli investimenti dal lato dell’offerta è la molla della crisi.
La seconda constatazione è la multidimensionalità dell’attuale crisi – politica, economica, ambientale – e una grande difficoltà ad individuare linee di azione che siano in grado di contemperare gli obiettivi che bisognerebbe conseguire in ciascuna di esse.
Terza constatazione: il carattere globale della crisi che rende inefficaci e costose le politiche nazionali (anche qualora avessero modo di esprimersi), mentre le politiche sovra-nazionali, a partire da quella europea, paiono difficili da conseguirsi.
Quarta, e non ultima constatazione, è che la risposta alla crisi rimanda nella sua sostanza alla risoluzione dei conflitti politici nell’area mediorientale (e non solo). Non è retorico dire che non vi potrà essere stabilità nei mercati energetici, non vi potrà essere possibilità di affrontare la povertà energetica – la vera sfida che sta di fronte al mondo intero – se non si ricreeranno condizioni di pace nelle aree petrolifere del medio oriente. La pace è nell’interesse di tutti – in primis dell’Occidente – ma di ciò pare esservi scarsa consapevolezza.
 



Cosa deve fare in Italia oggi una seria politica energetica?

Primo: ricreare, come fu negli anni ‘60, una condivisione sociale sulla reale portata della “questione energetica” e sulla necessità di affrontare, in uno spirito di unità nazionale, le sfide che la crisi sta ponendo alla nostra economia, alla sua competitività, alla capacità di acquisto delle famiglie. Ricostruire, in sostanza, un “comune sentire” sulla rilevanza dell’energia nel mantenimento dei livelli di benessere che abbiamo raggiunto.
Secondo: riportare il sapere scientifico, la conoscenza delle cose, al centro delle scelte, superando deformazioni, falsificazioni, confusioni, che impediscono alla collettività di avere contezza delle poste in gioco e che stanno alla base del rifiuto pregiudiziale a qualsiasi scelta. Non è democrazia quella che riconosce a tutti un diritto di veto.
Terzo: rimettere ordine nelle responsabilità istituzionali tra centro e periferia e, al centro, tra le articolazioni dello Stato che a diverso titolo interagiscono sulle scelte energetiche, superando quella indeterminatezza e quella confusione che impediscono di aver piena contezza sugli interessi di carattere generale a cui dovrebbe tendere l’operato delle diverse istituzioni pubbliche e verso cui dovrebbe altresì tendere – in sistemi di mercato – l’operato dei soggetti privati a cui oggi sono, in ultima analisi, demandate le scelte.
 



Per quanto attiene la questione nucleare qual è la sua posizione? È all’attenzione di tutti – dal punto di vista non solo tecnico ma anche gestionale – il cosiddetto modello finlandese. Che ne pensa?

Esattamente venti anni fa la centrale nucleare di Caorso venne spenta. L’Italia, terzo paese al mondo ad impiegare questa tecnologia, fu il primo ad uscirne. Si è consumata da allora la distruzione nel nostro Paese di ogni sapere – scientifico, progettuale, industriale, gestionale – e una delle tecnologie tra le più avanzate e alla frontiera delle conoscenze. Fummo in pochissimi a battersi (in occasione del referendum del novembre 1987), contro questa scellerata scelta, che ha impoverito la nostra industria, distrutto migliaia e migliaia di posti di lavoro, cancellato decine di imprese. Non ho quindi alcuna pregiudiziale contro il nucleare. È l’unica fonte che non produce emissioni inquinanti, che non costringe a critiche soggezioni politiche da potenze straniere, che è in grado di assicurare bassi costi di produzione dell’elettricità. Al contempo, sono consapevole delle molte difficoltà d’ordine sociale, politico, economico che pone un rientro nel nucleare. Non porvi attenzione, per darvi piena ed adeguata risposta, significa di fatto impedire il rientro del nostro paese in questa tecnologia. Di illusioni nel nucleare ne abbiamo in passato patite già troppe per alimentarne di nuove per il futuro.
 



Hanno fatto scalpore, qualche tempo fa, le parole di Bersani, secondo il quale l’Italia “non ha i muscoli” per il nucleare. Che ne pensa?

Non so di preciso cosa Bersani intendesse dire. Forse voleva riferimento ad alcune condizioni necessarie perché un paese possa operare nel nucleare. Primo: un’amministrazione centrale massimamente efficiente, in grado di svolgere appieno quelle funzioni di controllo, vigilanza, che impone – in condizioni di piena tutela della collettività – la costruzione e gestione di centrali nucleari. Secondo: una certezza dei processi autorizzativi, da cui dipende massimamente il tempo di costruzione di una centrale, il suo costo di capitale, la competitività del KWh elettrico. Se pensiamo alle infinite difficoltà per realizzare un termovalorizzatore, un rigassificatore, una qualsiasi opera di una certa rilevanza, capiamo che il “fattore tempo” sarebbe da noi del tutto imprevedibile, con rischio insostenibile per qualsiasi avveduto investitore. Anche qui bisogna rifuggire da ogni semplicismo, che è esattamente il contrario di un modo responsabile con cui riaprire l’opzione tecnologica del nucleare. 
 

Il primo ostacolo al nucleare in Italia è di tipo politico? Amministrativo, economico, culturale? Che ne pensa?

Gli ostacoli sono di tutti questi ordini. Politico: perché ogni piano di rientro dovrebbe essere condiviso dai due poli politici, dati i lunghi tempi necessari alla sua realizzazione, non potendosi immaginare che ciò che un polo realizza l’altro distrugga, come accaduto col ponte sullo Stretto di Messina. Amministrativo: perché le strutture amministrative di cui disponevamo in venti anni sono andate quasi completamente disperse e vanno quindi ricostituite.
Economico: per l’incompatibilità tra nucleare e mercato e la ritrosia degli investitori privati ad impegnare miliardi e miliardi di euro in contesti di mercato attraversati da grandi rischi e incertezze. Tra 1970 e 1990 si costruirono al mondo circa 17 centrali nucleari l’anno. A favorirle, concorsero tre condizioni: aiuti di Stato, certezza per le imprese di recuperare in tariffa i costi sostenuti, loro controllo monopolistico del mercato. Queste condizioni sono venute meno, e ciò spiega perché dal 1990 al 2005 si siano costruite solo 1,7 centrali l’anno, per lo più nei paesi emergenti.
Culturale: il peggior danno procurato dall’uscita dal nucleare è stata la distruzione e dissipazione del sapere – scientifico, manifatturiero, gestionale – che il nostro paese poteva vantare e che non si può ricostruire in un breve arco di tempo, come vanno sostenendo faziosamente molti “nuclearisti a prescindere”.
 

Come superare l’eventuale ostacolo del consenso?

Ricostruendo, come dicevo all’inizio, una comune consapevolezza e un comune sentire sulla posta in gioco per il nostro paese e per il nostro benessere dalle scelte energetiche che si imporrebbero. Compito e risultato anche qui non facile da conseguirsi.
 

Quale deve essere il futuro dei nostri investimenti in tema di fonti rinnovabili?

Gli investimenti nelle fonti rinnovabili sono gli unici che di fatto si vanno realizzando, in ragione degli elevatissimi incentivi riconosciuti a chi li realizza, in misura molto più elevata di quel che accade all’estero e con un impatto sulle tariffe elettriche sempre più elevato. Il solo fotovoltaico che si è ad oggi realizzato, peserà, secondo l’Autorità di regolazione, sulle bollette degli italiani per oltre 10 miliardi di euro nei prossimi 10-12 anni.
Le rinnovabili sono necessarie, ma si sappia e si dica che non sono assolutamente risolutive e che non potranno assolutamente ridurre le bollette delle famiglie e delle imprese. Semmai è proprio il contrario. 

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