Caro direttore,

confesso che ho provato disagio nel leggere molto di quello che è stato scritto e detto sui giornali a proposito della clinica Santa Rita di Milano. Cercherò di formulare alcune osservazioni che ne sono scaturite.

Premetto che queste sono maturate dall’esercizio della professione medica che mi vede impegnato da 27 anni sia in ospedali pubblici, sia in ospedali privati accreditati che in privati puri.



La prima osservazione è che stiamo parlando di fatti la cui gravità deve essere ancora provata e giudicata, stante l’attuale sistema giudiziario tuttora vigente in Italia, ma che non hanno impedito di coniare il titolo di clinica degli orrori (forse sarebbe più appropriato degli errori) e di paragonare i medici implicati a quelli dei lager nazisti. Ciò ha però provocato un clima di sfiducia, coinvolgendo come sempre in questi casi le persone più deboli, in primo luogo i pazienti e i dipendenti della clinica sull’orlo della disoccupazione.



La seconda osservazione è che ilsussidiario.net ha giustamente difeso il sistema sanitario lombardo, anzi complimenti al professor Zangrandi per la sua lucida analisi e le sue proposte.

A tal proposito volevo solo ricordare che tutti i sistemi in sanità dipendono anche e soprattutto da valori difficilmente misurabili, tipici della sfera personale: passione, dedizione, spirito di sacrificio, carità verso il prossimo. Valori che – lo dico sulla base della mia esperienza lavorariva – pervadono la stragrande maggioranza degli operatori, dei medici e degli infermieri che lavorano in Italia, se non altro per il fatto che sono fra i più malpagati in Europa. Queste qualità spiegano perché, per esempio, in Lombardia abbiamo un livello di sanità mediamente eccellente, nonostante, come sappiamo, la carenza di risorse economiche.



Ma allora perchè accadono queste cose, da dove nasce il disagio? È una questione insieme culturale, cioè di concezione antropologica, e politica.

È in corso da molti anni una sorta di svalorizzazione delle figure professionali sanitarie, specie quelle mediche legate, a mio parere, alla progressiva introduzione di leggi che regolano il sistema sanitario italiano, dalla 833 del 1978 alla 229 del 1997, la cosiddetta legge Bindi, che hanno gradualmente relegato il ruolo del professionista, grazie anche al consistente aiuto dei sindacati di categoria, a quello di un impiegato, aumentandone il carico burocratico, e riducendone la libertà e la capacita di iniziativa con l’introduzione del concetto prima dell’esclusività e poi dell’intramoenia. Parole che a me suonano, ma non solo a me, così: tu appartieni allo Stato, al sistema.

Ora è a mio parere comprensibile perché in questo panorama possano sorgere comportamenti scorretti. Occorre introdurre sulla base dell’esperienza un concetto culturale nuovo, o – se vogliamo – vecchio, perchè insito nel cuore dell’uomo, e che per chi esercita l’arte medica e infermieristica significa poter giocare totalmente la propria libertà e capacita di rischiare nel rispetto delle leggi. Questa capacita di libertà e di rischio non può essere controllata da nessun sistema ed è il culmine della responsabilità che un uomo può assumersi. Da tale posizione o concezione antropologica si può rilanciare un’idea di sussidiarietà in sanità, con veri protagonisti gli operatori e i pazienti. In questo l’attuale governo può darci una grossa mano: iniziando a metter mano alla legge Bindi, la legge più statalista del vecchio continente.

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