La tempesta che ha recentemente investito la sanità lombarda ha un solo aspetto positivo: quello di aver stimolato il dibattito sui punti critici del nostro sistema. Se tante sono state le proposte di correttivi tecnici da adottare per evitare il verificarsi d’illeciti o di comportamenti pericolosi, molte meno sono state le riflessioni sul ruolo dei medici e sul significato della parola “professionalità”.



Pochi sono stati inoltre gli interventi pubblici dei medici, a testimonianza di un clima di passiva accettazione dello “status quo”e di profonda frustrazione. Eppure molti avrebbero ragioni per esprimere il proprio malcontento: i giovani per la precarietà del loro posto di lavoro, gli scarsissimi guadagni e il poco tempo da dedicare alla crescita professionale; i medici di medicina generale per essere troppo spesso ridotti a “passacarte”, sommersi dalla burocrazia e dai controlli di spesa; chi lavora in ospedale per le difficoltà a dialogare con amministrazioni gestite con modelli aziendalistici non sempre facilmente coniugabili a quelli assistenziali. La valorizzazione economica delle prestazioni sanitarie, se applicata in modo esasperato o distorto e non di giusta razionalizzazione di spesa, rischia di svalutare la competenza clinica. Perdono così di significato il senso clinico, l’abilità chirurgica, il tempo dedicato a parlare con i pazienti, a fare formazione, a discutere i casi più difficili. Si passa così dall’essere “terminali di cure” ad essere meramente “terminali di spesa”; il merito diventa allora uno strano oggetto misterioso e sconosciuto.



Se è pur vero che i dottori troppo spesso, in questi anni, hanno accettato passivamente un progressivo “demansionamento”, disconoscere il valore delle professionalità, demotivare chi quotidianamente ha scelto di lavorare accanto alla sofferenza, arreca un danno a tutto il sistema e prima di tutto ai malati.

Oggi, per migliorare la sanità, non bastano solo ospedali nuovi o più moderni, non bastano solo correttivi tecnici-amministrativi. Occorre anche ripensare i modelli organizzativi e assistenziali condividendoli realmente, non solo formalmente, con chi quotidianamente assiste e cura, coniugando le necessità di razionalizzazione a quelle assistenziali e valorizzando le tante professionalità già esistenti, che oggi restano troppo spesso sullo sfondo. La sussidiarietà passa anche attraverso questo.



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