Nella crisi finanziaria tuttora in corso, un ruolo non secondario è giocato dalle cosiddette poste fuori bilancio, che hanno causato perdite ingenti una volta portate a bilancio. Ciò è derivato da un “buco” nella legislazione o da un’aperta violazione delle norme contabili esistenti?
È bene fare innanzitutto chiarezza sul fatto che le cosiddette operazioni fuori bilancio non esistono più. Con l’avvento dei nuovi principi contabili IAS-IFRS, in vigore dai bilanci 2006 e in progressiva estensione ad un novero sempre più ampio di imprese, i bilanci devono essere redatti sulla base del principio del “fair value” e cioè dell’assegnazione di un valore aderente a quello corrente di mercato. Ne consegue che le operazioni in discorso, che sostanzialmente riguardano i “derivati”, devono essere iscritte in bilancio e trovano ampia trattazione, si suppone esplicativa, nelle note integrative.
Detto questo, non siamo di fronte a “buchi” nella normativa o a violazioni della stessa; semplicemente (si fa per dire!) siamo di fronte alla necessità di assegnare comunque un valore a poste di bilancio che spesso rappresentano un “condensato” di strumenti finanziari più semplici. Un classico esempio sono i CDO, Collateralized Debt Obligation, strumenti frutto di operazioni di cartolarizzazione (securitization) emessi da società veicolo appositamente costituite (structured investment vehicle SIV), che sono emessi a fronte di attività (tipicamente crediti, e fra questi i mutui) o di diritti su crediti attraverso i credit default swap (CDO sintetici). Le difficoltà di valutazione di questi titoli hanno colto impreparate le stesse società di rating, come Standard & Poor’s e Moody’s, le quali nel giro di qualche mese hanno declassato oltre 2.500 titoli assistiti da mutui. Molte banche, pertanto, al pari dei risparmiatori, confidavano nell’affidabilità dei rating emessi da queste società e acquistando titoli investment grade si ritenevano sufficientemente protette dal rischio d’insolvenza. Il declassamento di questi titoli ne ha immediatamente contratto il valore, provocando ingenti perdite finanziarie per le banche più esposte.
L’innesco della crisi finanziaria, pertanto, non è riconducibile alla generalità del sistema bancario, bensì alle grandi merchant e investment bank le quali, organizzando complesse operazioni di finanza strutturata e non considerando completamente le difficoltà di valutazione delle stesse da parte delle società di rating hanno di fatto inondato il mercato di titoli “black-box” con rating investment grade e quindi, apparentemente sicuri.
È bene anche aggiungere che in prevalenza sono state le stesse banche d’affari (merchant e investment banks) a sottoscrivere la maggior parte di questi titoli, assieme ad altri pochi gruppi bancari internazionali di vaste dimensioni: i problemi connessi hanno trovato riscontro nelle ingenti perdite che si sono via via materializzate e che hanno causato sia l’intervento pubblico “di riassetto” (Bear Stearns in USA e Northern Rock in UK) sia la necessità di ricapitalizzazione (Société Genérale, Lehman Brothers, UBS ed altri, fra i quali si segnalano Citigroup, Merril Lynch e Morgan Stanley, nelle cui compagini sociali sono entrati i cosiddetti fondi sovrani). Negli Stati Uniti, inoltre, si sta indagando sulla eventualità di un aggiramento delle norme esistenti, attraverso la costituzione di operatori non controllati come le banche, che avrebbero favorito l’innesco delle operazioni di finanza strutturata più sopra richiamate: a seguito di dette indagini, anche i vertici delle grandi banche di investimento coinvolte nella crisi sono finiti sotto indagine e sono stati sostituiti.
Le banche italiane, com’è abbondantemente noto, sono state investite in misura molto limitata dalla crisi, poiché possiedono, appunto in misura molto limitata, titoli “sintetici”, cioè con componenti che presentano problemi di valutazione come detto sopra; naturalmente non sono però estranee alla situazione di crisi finanziaria più generale che è derivata (è proprio il caso di dirlo!) dalla reiterata cartolarizzazione dei crediti ad alto rischio (come sono appunto i mutui sub-prime statunitensi).
Il prolungamento della crisi finanziaria è infatti attribuibile ad un effetto domino sui mercati: qual è l’effettivo grado di rischio dei titoli non ancora declassati? I titoli oggetto di declassamento dopo questo ritracciamento sono finalmente valutati in maniera corretta? Sono questi i dubbi che si sono progressivamente propagati nel mercato e hanno indotto una duratura ed inattesa scarsità di liquidità interbancaria (prezzi erratici e tesorerie sempre molto problematiche) ed una altrettanto prolungata fase di instabilità (riflessa nella cosiddetta volatilità) dei mercati mobiliari. Come tutte le crisi finanziarie (se ne contano almeno cento negli ultimi trenta anni, approssimativamente una ogni quadrimestre) anche per quella in corso, c’è un inizio più o meno certo (nella fattispecie i mutui sub-prime) e c’è anche una fine, solitamente raggiunta grazie all’intervento sempre più puntuale ed incisivo delle autorità di vigilanza, concertato in sede necessariamente internazionale, anch’esso frutto della globalizzazione dei mercati finanziari.
In entrambi i casi, come è possibile che nessuna Autorità di controllo sia intervenuta prima che il bubbone scoppiasse?
Le Autorità di controllo devono garantire la solidità del sistema verificando la presenza di un’adeguata patrimonializzazione e di una sufficiente informazione (disclosure) sui rischi assunti da ciascuna banca. Sul primo aspetto, l’implementazione degli accordi di Basilea sta rendendo sempre più efficace il controllo della stabilità (adeguatezza patrimoniale commisurata ai rischi non solo di credito ma anche di mercato ed operativi); sul secondo aspetto gli obblighi informativi si vanno specificando sempre meglio e le recenti vicende stanno offrendo l’occasione per l’identificazione sempre più precisa dei rischi potenziali. Diverso è il caso degli Stati Uniti, dove le investment banks hanno goduto di un regime di controllo evidentemente meno stringente (come si sta affrettando ad ammettere la stessa Federal Reserve) e dove, come abbiamo detto, c’è il sospetto di un aggiramento delle norme sul quale si stanno svolgendo indagini federali.
Per quanto paradossale, proprio l’introduzione dei nuovi principi contabili, in omaggio ai costumi anglosassoni delle valutazioni mark-to-market, ha fatto emergere il problema della contabilizzazione delle perdite legate ai derivati creditizi. Può darsi che in alcuni casi ci siano state violazioni delle norme contabili o di aggiramento delle norme di vigilanza esistenti, sulle quali ci auguriamo che si faccia al più presto la necessaria chiarezza. Certamente si va verso una trasparenza sempre più ampia e comunque tale da consentire un rappresentazione più realistica della situazione economica e finanziaria delle banche, siano esse commerciali o di investimento. Molti dei problemi che stanno alla base della crisi attuale sono da ricercare nella reiterazione della cartolarizzazione sintetica, frutto di una innovazione finanziaria evidentemente eccessiva e forse all’inadeguatezza dei metodi di valutazione attualmente adottati dalla società di rating, i quali, peraltro, sono in fase di completa ridefinizione. Detto in altri termini, il ricorso alla cartolarizzazione può aiutare a gestire più efficacemente un portafoglio di rischi: se fatta in eccesso, anche con artifici che consentono di aggirare le restrizioni vigenti e magari nella rincorsa di budget ambiziosi o di guadagni supposti facili, può snaturare la mission originaria della banca (assunzione e gestione dei rischi) e dare luogo ad una distribuzione degli stessi presso operatori spesso inconsapevoli!
A parte le Autorità, è plausibile la connivenza di interi CdA, compresi i consiglieri indipendenti e dei revisori dei conti?
A giudicare da alcuni casi emblematici, quali la Enron, Parmalat e quelle recenti di Bear Sterns, Merril Lynch ecc., si potrebbe dire di sì. Certamente vi devono essere connivenze al livello di strutture operative, in grado di far saltare, almeno temporaneamente, i sistemi di controlli interni studiati proprio per non consentire abusi nell’assunzione dei rischi: le vicende statunitensi che vedono coinvolti i vertici delle grandi banche di investimento, ci dicono che le connivenze ci sono, si deve scoprire soltanto fino a quale livello sono giunte! Nella realtà non è possibile generalizzare; i sistemi dei controlli interni sono sempre più sofisticati e dovrebbero consentire una corretta informazione agli organi decisionali: non è detto che ciò succeda sempre o che gli organi decisionali agiscano sempre in conformità all’informazione corretta.
Sulla base di quanto sta accadendo, apparirebbe quindi necessaria una maggiore trasparenza dei bilanci e un maggiore rigore nelle norme contabili, ma visto che si parla spesso di etica di impresa e di etica degli affari, si dovrebbe forse cominciare a parlare anche di etica di bilancio? E sulla base di quali principi?
Come detto, trasparenza e rigore nella redazione dei bilanci si stanno diffondendo non solo sulla base delle esigenze normative ma sempre di più come pura richiesta del mercato: le banche che si rivolgono ai mercati, appunto, sono chiamate a spiegare sempre meglio i conti che presentato agli analisti se vogliono mantenere o migliorare i rating dai quali dipendono i costi del loro capitale, sia di credito sia di debito. Quanto all’etica, se è parte della cultura dell’impresa e si esplica anche negli affari, come è giusto attendersi da imprese speciali quali sono appunto le banche, che devono gestire al meglio il rapporto fiduciario ereditato, costruito e mantenuto col proprio mercato di riferimento, allora non c’è bisogno di “etica di bilancio”: questo si può tranquillamente limitare a raccogliere le evidenze contabili delle operazioni che, per definizione, sono corrette, perché frutto di imprese etiche e di affari altrettanto ispirati dall’etica.
Comunque, è auspicabile un intervento legislativo che imponga che queste poste debbano essere evidenziate e spiegate in modo da poterne valutare l’eventuale influenza sui conti della società?
Come detto, con riferimento al contesto europeo, il mondo del fuori bilancio è praticamente scomparso per le società che adottano i principi IAS-IFRS. Per le imprese di minore dimensione il legislatore ha già provveduto in tale direzione sotto due profili: è prossima l’applicazione degli IAS-IFRS per le piccole e medie imprese; sono inoltre in fase di approvazione modifiche nel nostro codice civile per uniformare la redazione delle note integrative agli standard più stringenti. La realtà del fuori bilancio tenderà a sparire del tutto e le informazioni integrative saranno sempre più esaurienti: si pensi che il bilancio di una grande banca che nel 2005 non superava le 300 pagine, oggi può superare tranquillamente il doppio. Almeno in termini di “quantità” credo che ciò debba farci riflettere; quanto alla “qualità”, oltre all’intervento diretto delle Autorità di vigilanza, un importante incentivo non può che provenire dalla disciplina del mercato. Sarebbe infine d’aiuto la chiara individuazione delle responsabilità nei casi che si stanno esaminando ed indagando per le banche “blasonate” coinvolte nella crisi recente, con l’auspicio che si riesca a giungere ad una severa condanna di tutti coloro che hanno progettato l’aggiramento delle norme vigenti e l’innesco di una cartolarizzazione che si è rivelata essere non solo non virtuosa ma addirittura moltiplicatrice di danni!