Qualche settimana fa, l’ex premier britannico, Tony Blair, ha scritto un articolo per il Phylanthropy UK Newsletter (tradotto su La Repubblica di giovedì 19 giugno) che contiene alcuni spunti interessanti per condurre una riflessione intorno al ruolo e al riconoscimento dell’azione volontaria e delle organizzazioni non profit. Blair, innanzitutto, riconosce il settore del volontariato e del non profit quale componente essenziale di una società giusta, richiamando alcuni interventi del suo governo che hanno inteso sostenere lo sviluppo del terzo settore senza, tuttavia, minarne l’autonomia e l’indipendenza.



In secondo luogo, egli afferma che la religione riveste un’importanza significativa nell’azione e negli interventi delle charities e si lamenta che spesso l’opinione pubblica abbia una percezione distorta del ruolo della religione.

In terzo luogo, Blair richiama alla “rete” degli interventi, sottolineando come sia essenziale, al fine di delineare un’efficace strategia di azione, che le singole organizzazioni non profit verifichino sul campo se altre siano già occupate nel medesimo settore o stiano realizzando attività similari. E ciò non per depauperare la singola “intuizione”, quanto piuttosto per renderla più utile.



In quarto luogo, egli richiama la flessibilità e l’adattabilità degli interventi, in quanto i bisogni della società civile, mutevoli per definizione, possano essere affrontati così da individuare le soluzioni più adeguate.

Last but not least, Tony Blair afferma che – a differenza della politica – il settore filantropico, ovvero delle organizzazioni di volontariato e non profit in genere, rappresenta un terreno fertile per accogliere e lavorare con gli altri, in specie se su opposte posizioni, in quanto tutti si è impegnati per contribuire ad uno scopo comune.

Quanto sopra brevemente sintetizzato è certamente l’outcome di una tradizione culturale che, storicamente, fin dal 1601, anno in cui Elisabetta I approvò la prima legge sul non profit, ha largamente riconosciuto il ruolo e la funzione “pubblica” delle charities. Ma è anche il frutto di una riflessione e di una posizione culturale, politica e finanche gestionale capace, qualora scevra da ostacoli di carattere ideologico, di favorire lo sviluppo e la crescita delle organizzazioni della società civile.



Invero, il contesto britannico è fortemente caratterizzato – e non a caso spesso portato quale importante punto di riferimento dalla dottrina e dal dibattito sugli enti non profit anche in Italia – dal largo impiego di partnership pubblico-private (PPPs), dall’accreditamento delle organizzazioni di volontariato e non profit, quali unità di offerta di servizi socio-sanitari, da un’impostazione normativa secondo la quale il termine “public benefit” non deve essere rigidamente interpretato, in quanto si ritiene che esso debba garantire “flexibility, certainty and the capacity to accomodate the diversity of the sector”.

Le parole di Tony Blair possono risultare utili per valutare il grado di sussidiarietà delle politiche di intervento nel settore socio-sanitario, del volontariato, delle imprese sociali, politiche che, ad eccezione di qualche esempio virtuoso a livello regionale, risentono, in alcuni casi, ancora oggi, di una concezione illuminista ben espressa dal passaggio che segue, tratto da un famoso articolo che A. R. J. Turgot, ministro francese nel periodo 1727-81, scrisse per l’Encyclopedie in tema di fondazioni: “La legge suprema è la pubblica utilità ed essa non dovrebbe essere controbilanciata né da un rispetto superstizioso per ciò che si considera la volontà dei fondatori né dalla paura di recare nocumento ai presunti diritti di una certa collettività, come se una collettività particolare dovesse vantare dei diritti nei confronti dello Stato”.

(Foto: Imagoeconomica)