Onorevole Stadella, il governo ha inserito nel Dpef una strategia organica per la casa. Perché?

Gli italiani in grandissima maggioranza hanno la proprietà della casa. Questo non toglie che vari fattori, come l’immigrazione, il caro vita, situazioni locali di povertà abbiano determinato la necessità di un intervento rivolto a tutti coloro che hanno diritto ad abitare ma sono senza mezzi. Nei loro confronti l’onere deve essere a carico della collettività. Ecco dunque il motivo di un vero e proprio “piano casa” predisposto dal governo.



Qual è il problema più rilevante di un housing sociale ad affitto sostenibile?

Partiamo dal presupposto che il costo di costruzione sia più o meno costante sul territorio nazionale. Il problema da risolvere è quello dell’individuazione delle aree edificabili: se stiamo ai valori di mercato i costi delle aree individuate saranno elevatissimi. Mentre la chiave di volta del provvedimento sta nel concedere capacità edificatoria su aree destinate a edilizia residenziale pubblica ma acquisite a costo agricolo.



Senza differenza tra aree rurali e aree metropolitane?

Non proprio. Dovendo reperire aree al minor costo possibile, bisognerà guardare in via preferenziale alle aree agricole; o a zone industriali dimesse, per quanto riguarda il social housing dedicato alle aree metropolitane. Evitando con cura le aree soggette oggi a grosse speculazioni immobiliari.

Qual è la soluzione auspicabile, secondo lei, sotto il profilo esecutivo?

Per le aree metropolitane si può mettere in pratica quello che potremmo chiamare il “modello Tav”: un contraente generale (il “general contractor” o contraente generale come definito nella cosiddetta legge obiettivo – legge 21.12.2001 n. 443 contenente la delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive; ndr.) si impegna a costruire case, ipotizziamo, per Milano, in un’area individuata a basso costo. Mentre nel caso di comuni con diecimila o ventimila abitanti, nei quali l’intervento prevede la costruzione di 20 o 30 alloggi in tutto, la soluzione non può che basarsi sul coinvolgimento di privati. Per ovvie ragioni di costi: lo Stato, con la legge fatta da Prodi nel 2006, può essere in gradi di racimolare qualche milione di euro ma non di più. I costi previsti dal piano di edilizia abitativa del governo sono nettamente superiori.



L’entità degli interventi da realizzare, quindi, porterà soluzioni di affidamento diversificate. Vede possibili inconvenienti?

Per quanto riguarda l’ipotesi del contraente generale, cioè di affidare ad un pool di imprese la realizzazione di interventi su aree vaste, questa può presentare qualche difficoltà. Innanzitutto le imprese di costruzione in Italia sono il paradigma dell’impresa medio-piccola, e quindi il piano casa potrebbe diventare un mercato esclusivo per i grandi gruppi. E i grandi gruppi potrebbero non essere in grado di dare risposte dove la domanda abitativa fosse di dimensioni più contenute o circoscritte a interventi di minore portata. Il testo, non a caso, dice che quella del contraente generale è una delle ipotesi, quindi lascia aperto lo spazio ad altre soluzioni.

Il governo varerà un piano il cui costo si aggira fra 5 e 7 miliardi di euro per la costruzione e riqualificazione di 100 mila alloggi da affittare a fasce sociali deboli, da finanziare grazie ai partner privati, in cambio di agevolazioni e con l’impegno di destinare almeno il 60% dei nuovi alloggi a edilizia popolare, e vendendo le abitazioni ex Iacp. È esatto?

Sì. Questo comporta un accordo ben preciso con le Regioni perché il patrimonio Iacp non è dello Stato, ma delle Regioni. La cessione a condizioni determinate – ossia di non poter rivendere nei dieci anni successivi agli attuali affidatari di alloggi di edilizia economico popolare – è una delle possibilità di finanziamento. Ma la quota maggioritaria del finanziamento dell’operazione non può che venire da investimenti privati, da fondi immobiliari o da fondazioni bancarie.

 

Cosa pensa del possibile ingresso delle fondazioni bancarie?

Sarebbero le benvenute, perché i loro fondi provengono dall’operatività delle banche di riferimento e la loro destinazione “naturale” è la crescita e lo sviluppo del territorio. La strada da battere, comunque, è quella di fondi immobiliari a capitale privato. È un’esperienza che funziona negli Usa, che ha funzionato nell’Europa del nord. Ci aspettiamo che funzioni anche da noi.

Quali sono le condizioni indispensabili?

Innanzitutto regole precise e la certezza che queste non cambino. Nessun investitore straniero investirà più nelle autostrade italiane, dopo l’incomprensibile decisione dell’ex ministro Di Pietro di cambiare il regime delle concessioni autostradali. Regole definite, dunque, ma anche la certezza, per il privato, di investimenti remunerativi. Occorre poi sapere come l’articolo 11 del provvedimento uscirà dalla manovra. È stato più volte modificato e molto probabilmente nel maxiemendamento finale, sul quale il governo metterà la fiducia, subirà altre modifiche.

La regolazione urbanistica e di governo del territorio – che la maggioranza di centrodestra ha già tentato di modificare nella 14sima legislatura – può riservare sorprese?

I piani urbanistici locali dovranno prevedere numerosi aggiustamenti. Se oggi si pensa di costruire su un’area non edificabile, si deve modificare il piano regolatore, o comunque fare un accordo di programma. E tutto questo, per il modo di operare della pubblica amministrazione nel nostro paese, necessita di tempi lunghi. In Italia, come tutti sanno, si perde più tempo nella elaborazione e nell’iter del progetto che nella realizzazione esecutiva. È possibile risolvere o rimediare, nel rispetto delle procedure consentite, a questo inconveniente? Secondo me sì: là dove la prima versione del piano casa parlava di “concertazione di provvedimento” tra ministeri e organi deputati all’attuazione, l’ultima versione del piano casa è passata alla formula dell’approvazione con DPCM previa delibera del CIPE entro 60 giorni, eccetera. Lì si potranno inserire le norme per agevolare le procedure concessorie e questo potrà rendere più spedito l’iter degli adempimenti.

Un fattore fondamentale per la riforma delle politiche per la casa è senz’altro l’elemento fiscale.

Il regime di Iva della vecchia edilizia convenzionata, come anche quello di progettazione e costruzione della prima casa, è del 4%. Per il resto invece rimane al 20%. Sicuramente non è un incentivo alla realizzazione di un piano di edilizia sociale, se consideriamo che il primo soggetto interessato alla sua riuscita è lo Stato stesso e quindi una maggiorazione del 16% è difficile da giustificare. Ma il piano del governo è un provvedimento in divenire e quindi c’è da augurarsi che si arrivi ad un regime fiscale agevolato.

A suo modo di vedere l’interazione tra piano casa del governo e piani regionali esistenti sul territorio presenta degli inconvenienti?

Occorre naturalmente affrontare il discorso in sede di Conferenza Stato-Regioni. Con Comuni e Province la tipologia dell’accordo di programma e dei programmi integrati di sviluppo residenziale, che vengono trasformati in interventi di interesse strategico nazionale, sveltirebbero le procedure e sarebbe un modo per far diventare le amministrazioni locali soggetti attivi delle soluzioni, dando loro maggiore responsabilità dal punto di vista dell’accelerazione delle procedure.