Forse per comprendere la vicenda della Security di Telecom di questi giorni, bisogna essere degli accaniti e appassionati lettori di John Le Carrè. Non solo dei suoi primi libri, quando l’ex spia inglese del MI6, diventato scrittore, combatteva il comunismo sul campo nei vicoli delle città tedesche dell’Est arrivando a mettere nel sacco anche il “grande Karla”, seguendo la pista di un accendino. Ma bisogna riferirsi agli ultimi racconti, dopo la caduta del “Muro di Berlino”, quando le spie diventano dei gruppi di “liberi professionisti”, manager di aziende di spionaggio in cerca di affari, di lavoro e di potere. Oppure abbracciano vocazioni private, anche nobili. In tutti i casi, gente senza bandiera. Lo scrittore faceva in verità capire, anche nei suoi primi racconti, che le spie, quando non avevano un nemico di fronte, ben preciso, si dedicavano “a spiarsi tra loro”. Mestiere complicato quindi, antropologicamente, anche al servizio di Sua Maestà britannica.
Figurarsi in un mondo come quello del nostro Belpaese, ricco di blagueurs, di millantatori e di improvvisatori. Certo, anche nel nostro Paese, ci sono stati bravi funzionari d’intelligence, che facevano il “tifo per la loro bandiera”, ma il milieu non è stato mai dei migliori. Dopo la caduta del “Muro”, inevitabilmente si è arrivati al peggio.
Fatta questa premessa, sembra che oggi ci si trovi al centro di una pochade dai contorni indecifrabili, dove l’acquisizione di notizie riservate sono anche al servizio di un’azienda telefonica, ma soprattutto degli uomini che ne dirigono la Security. Così come i rapporti tra una grande azienda e il potere politico. Si può arrivare all’appropriazione, attraverso meccanismi sofisticati di spionaggio, di dati sensibili per lavorare in proprio. Così come si può scorazzare nella vita privata dei cittadini magari anche quando si lavora per conto della magistratura. Alla fine si ha un bel dossier di quindicimila cittadini italiani, oltre a qualche straniero di passaggio. E chissà se i conti sono giusti o non corrispondono per difetto.
Questo è quello che appare dalla indagine della magistratura milanese sull’affare Telecom, dove il capo della Security, Giuliano Tavaroli, viene indicato come responsabile di avere più o meno costituito un supermercato di notizie, mettendosi al centro di un sistema di informazione, per offrire dati a chiunque avesse interesse. Usufruendo ovviamente di “amici di infanzia”, di conoscenze in tutti i campi, anche nel mondo misterioso, si fa ormai per dire, dei servizi. Da questa lunga indagine della magistratura milanese, esce, senza imputazioni, il capo dell’azienda per cui Tavaroli lavorava e che lui oggi sostiene di avere coperto durante il passaggio in carcere e le indagini dei magistrati. Insomma, tutto quello che era stato attribuito, più o meno velatamente in questi anni a Marco Tronchetti Provera, cade dopo l’indagine della magistratura, mentre Tavaroli e alcuni suoi amici restano sotto scacco.
Che cosa capita a questo punto? Tavaroli rovescia il tavolo e rilascia interviste a un grande quotidiano dove, apparentemente, Tronchetti Provera esce con le ossa più rotte di prima. Ma non si ferma solo qui l’ex capo della Security di Telecom. Aziona il famoso “ventilatore” che sparge veleno in tutte le direzioni e su una fetta incredibile di politici italiani. C’è chi coglie e chi misura le contraddizioni delle nuove rivelazioni di Tavaroli, ma ormai il meccanismo della disinformazione è un “fiume in piena” per cui si resta inevitabilmente travolti e si devono fare i controcomunicati, le puntualizzazioni, le conferenze stampa indignate.
Siamo arrivati, in questo modo, a una nuova fase della vita italiana. Che non è quella del declino dell’economia italiana, ma del declino della classe dirigente di questo Paese, sia nel suo versante politico che in quello della grande imprenditoria. La colpa gravissima di questa classe dirigente è sempre stata quella di riparasi dietro al pettegolezzo sull’avversario di turno, sia esso un politico o un avversario nel campo degli affari. Se un tempo, sia la classe politica che quella imprenditoriale cercavano di tutelare soprattutto la loro immagine cercando di controllare i giornali, oggi sembrano quasi ossessionati dal controllo di tutti i media, soprattutto da quelli di nuova generazione, quelli più sofisticati. Come in una sorta di grande corto circuito mediatico, tutto ormai rimbalza da un giornale a un’intercettazione telefonica, da una notizia che si dice riservata a un grande retroscena, di cui naturalmente non si viene mai a capo. Il retroscena soprattutto, in assenza di una informazione più rigorosa, è la chiave di volta per ogni battaglia, sia essa politica o imprenditoriale.
E’ vero che depistaggi e disinformazione, con il gusto del retroscena, avvengono anche in altri Paesi, ma in Italia siamo all’ossessione. In fondo la valanga delle intercettezazioni telefoniche, sostituisce perfettamente la ricerca di uno sguardo attento alla realtà. E come non capire che i professionisti della disinformazione o gli immaginifici creatori dei retroscena puntassero su questo nuovo lavoro? In un Paese dove si è teorizzato, più di una volta, che i servizi segreti devono essere chiari e dove il gossip è la misura dell’informazione, alla fine si cade nelle mani del professionista che si pone al centro del flusso di una marea di informazioni (giuste, sbagliate, approssimative) per farne un uso disinvolto e poi magari per cercare vie di scampo o colpi di coda finali, quando viene scoperto con le mani nella marmellata. In sostanza, diciamo pure che una classe dirigente dovrebbe valutare le competenze e la professionalità, non l’improvvisazione sensazionalistica.
E’ avvilente oggi vedere che i due più grandi giornali italiani, conducono quasi una “guerra privata” sul caso Tavaroli-Tronchetti. E forse in questa “guerra privata” ci sono palesi conflitti di interessi che aggrovigliano ancora di più tutta la vicenda.