ilsussidiario.net ha chiesto al direttore di Economy Sergio Luciano un’opinione sulla vicenda del salvataggio Alitalia dopo gli sviluppi degli ultimi giorni.
La storia infinita del salvataggio Alitalia andrà ai tempi supplementari: è questo il dato che emerge con sostanziale chiarezza dalla “melina” degli ultimi giorni tra il consiglio d’amministrazione della compagnia, che l’8 agosto dovrà approvare i conti semestrali e assumersi la responsabilità di affermare che la “continuità aziendale” è ancora confermata (ovvero la possibilità per l’azienda di andare avanti con le sue forze, sia pur perdendo soldi ogni giorno), le forze politiche di maggioranza e l’advisor dell’operazione, Intesa-San Paolo.
La banca chiede, a quanto è dato sapere, che Alitalia sia ammessa ai benefici della legge Marzano, opportunamente modificata rispetto al testo oggi in vigore, che possa cioè essere commissariata affinché le attività industriali irrecuperabili siano avviate alla liquidazione e la nuova compagnia possa ripartire senza debiti pregressi: per Intesa è stato infatti possibile trovare nuovi soci disponibili a mettere i loro soldi sulla scommessa del rilancio (si parla dei Benetton, di Gavio, di Colaninno e di Ligresti, ma si sa che altri potrebbero aggiungersi), ma non ne ha trovati di disponibili ad accollarsi addirittura le perdite pregresse: nel primo caso, lo stanziamento sufficiente sarebbe di 700 milioni di euro, nel secondo caso si tratterebbe di aggiungerne altri 1.000.
Ora il nodo “politico” si riassume in due gravi problemi: il taglio di almeno 6.000 posti di lavoro, tra la compagnia e le attività collaterali, destinate alla liquidazione; e il rimborso parziale o addirittura annullato delle obbligazioni acquistate nel 2005 da numerosi investitori privati con l’idea di recuperare il capitale nel 2007, scadenza slittata al 2011. Inoltre, l’opposizione contesta al governo che l’utilizzo della legge Marzano riveduta e corretta, con il conseguente avvio alla liquidazione delle attività irrecuperabili, configgerebbe l’impiego di “aiuti di Stato” vietati dall’Unione Europea. Come si vede, ce n’è d’avanzo per bloccare ancora una volta il tutto.
Ma su questi punti controversi bisogna essere chiari. Innanzitutto la faccenda degli esuberi. Alitalia e Alitalia Service (come si chiamano le attività non-fly che facevano capo al gruppo ma oggi sono controllate in parte direttamente dal Tesoro attraverso Fintecna) hanno un organico di circa 20.000 addetti. Considerare questo esercito di persone come una platea di potenziali “vittime innocenti” della ristrutturazione è del tutto sbagliato. Saranno anche vittime, certo, quelle che perderanno il posto, ma in buona parte non sono affatto “innocenti”. Da molti anni, se non da decenni, le assunzioni in Alitalia sono state fatte tutte con grevi criteri clientelari, per cui era pressoché impossibile essere assunti senza essere raccomandati da qualche forza politica o sindacale. Che un gioco sporco come questo abbia creato un organico pletorico – a confronto con quelli delle compagnie europee – e inefficiente, era inevitabile.
Ora che questi lavoratori in tanti casi non meritevoli paghino il pegno delle cassa integrazione e della mobilità, cioè della trafila che conduce a perdere il posto, è triste ma inevitabile. I sindacati strepiteranno, e sarebbe assurdo che non lo facessero, ma è auspicabile che il governo tenga duro e non arretri nemmeno di fronte a uno sciopero: ricordino, peraltro, i sindacati che un’azienda che perde tre milioni di euro al giorno dallo sciopero trae vantaggio, e non danno.
Discorso non dissimile per gli investitori che hanno comprato le obbligazioni a rischio di rimborso, “obbligazionisti” in gergo finanziario. Ebbene: nel 2005, all’epoca del collocamento, si sapeva benissimo sul mercato che l’Alitalia era un’azienda ad alto rischio di fallimento. Chi ha comprato quelle obbligazioni l’ha fatto in malafede: convinto, cioè, che il rischio altissimo fosse in realtà sicuramente destinato ad essere coperto dallo Stato, convinti insomma che comunque prima o poi “Pantalone” avrebbe pagato. Se oggi le cose sembrano mettersi in un modo diverso, per cui lo Stato paga, sì, ma solo una parte dei costi della ristrutturazione, peggio per chi ha giocato in Borsa con tanta spregiudicatezza. Le obbligazioni di un’azienda fallita valgono carta straccia, se la compagnia di bandiera Alitalia potrà risorgere dalle sue ceneri sarà grazie a un parziale fallimento che potrà coinvolgere anche i suoi obbligazionisti: peggio per loro.
Infine, la faccenda degli aiuti di Stato. È addirittura stupefacente che mentre gli Stati Uniti d’America – in teoria, patria del liberismo più puro – approvano una legge dello Stato che stanzia 300 miliardi di dollari (alias 200 miliardi di euro!) per coprire i costi del fallimento di due grandi banche immobiliari come Freddie Mac e Fannie Mae, senza che nessuno laggiù si scandalizzi in Italia ci si accapigli per un prestito da 300 milioni di euro e per l’eventualità che un’altra miliardata di euro sia ancora spesa dallo Stato per salvare il salvabile di una compagnia aerea che in fondo ha una sua grande, sia pur potenziale, utilità nel sostegno della principale industria italiana che resta pur sempre quella del turismo.
Infine, un corollario: i puristi italiani della libera concorrenza, che sono tali solo quando fa comodo a loro per ragioni politiche, già si stracciano le vesti perché il presupposto della ripresa di Alitalia sarebbe la fusione con Air One, il che comporterebbe l’acquisizione di un sostanziale monopolio della tratta Linate-Fiumicino. Ebbene, questi paladini del libero mercato s’informino: erano loro gli stessi che osannavano alla soluzione Air France, ossia alla svendita di Alitalia, e del suo ancora straordinario mercato potenziale, al colosso francese. Il quale detiene l’80% di tutte le rotte del suo mercato interno. Avete letto bene: Air France gestisce in Francia l’80% di tutti i voli nazionali. Ed è grazie a questo sostanziale monopolio che è riuscita a tenere i conti in ordine, nonostante il caro-petrolio. Questi sono i fatti. Il resto sono solo polemiche politiche strumentali.