Il colpo di scena è arrivato in queste settimane, attraverso vari articoli di giornali. E ancora ieri mattina, un editorialista “principe” de Il Corriere della Sera teneva una lezione d’alta classe sul duale, con una conclusione però un po’ contraddittoria sugli interventi delle banche per “interesse nazionale”, da cui il giornale di via Solferino non è immune, pur essendo partecipato da Mediobanca. Ma è solo un dettaglio finale, di una questione importante cominciata da qualche tempo.



La merchant bank più blasonata del Paese e tra le più famose d’Europa, la Banca di Credito Finanziario fondata da Enrico Cuccia, dopo un periodo piuttosto travagliato, è ritornata a essere un perno decisivo della finanza italiana e soprattutto è al centro di quelle partecipate, come si dice in gergo, che fanno sistema: Generali, Telecom Italia, Rcs-Corriere della Sera.
Circa un anno fa, in occasione della fusione di due grandi azionisti di Mediobaca, Unicredit e Banca di Roma (due delle vecchie “bin”), ne è conseguita una scelta diversa di governance. Non più il consiglio di amministrazione classico con un management espresso e facilmente controllato dai soci azionisti, ma il sistema duale, con un Consiglio di gestione (management) e un Consiglio di sorveglianza (soci azionisti).

L’applicazione di questo schema societario si è rivelato piuttosto complicato, anche se corrispondeva a una vecchia esigenza: quella di assicurare una certa indipendenza e rapidità di manovra del management. Come tutti gli schemi, compreso il duale, difficilmente si adattano alla realtà, soprattutto a quella italiana e a quella particolare di Mediobanca.
Nella storia della merchant bank, il management agiva come se già fosse in perfetta sintonia con un virtuale schema duale. Chi metteva in discussione le scelte e le capacità di Enrico Cuccia e di Vincenzo Maranghi? A ben vedere, per uno strano paradosso, è proprio nell’estate del 2002, quando Maranghi fa l’operazione “Ferrari”, che scatta la reazione di uno degli attuali difensori del duale in piazzetta Cuccia, Alessandro Profumo, che critica aspramente l’allora amministratore delegato di Mediobanca e innesca una manovra che porterà, dopo un significativo passaggio in Generali, all’uscita di Maranghi da piazzetta Cuccia nella primavera del 2003.

Ritorniamo ai giorni nostri. Quando lo scorso anno, con il duale imperante, si presentano alcune partite piuttosto complicate, prima tra tutte quella di Telecom Italia e, in modo non certo secondario, quella di Generali e di Rcs, ci si trova di fronte a oggettive difficoltà. Cesare Geronzi, presidente del Consiglio di sorveglianza, si trova nella situazione, per un codice di competenze che la Banca d’Italia sta predisponendo, a non essere più, come il predecessore Gabriele Galateri di Genola, vicepresidente di Generali e di Rcs. I passaggi e le soluzioni per le strategie delle partecipate diventano piuttosto complicate. C’è chi dice che la nomina di Franco Bernabè al ruolo di amministratore delegato di Telecom Italia sia stata shoccante per alcuni soci di Mediobanca. Forse in questo aggettivo c’è molta fantasia. Ma è certo che, al di là della capacità di Bernabè, quella soluzione fu piuttosto tormentata.
C’è poi un’altra questione che si pone, secondo alcune voci, sul tappeto: l’iniziativa della banca on line “Che banca!”, un’irruzione nel retail, in modo piuttosto spigliato e modernista, che avrebbe fatto arricciare il naso a qualcuno. Mentre da tempo, a Mediobanca, c’è un progetto che prevede un allargamento nel settore del retail attraverso e dopo l‘aggregazione di alcune grandi banche popolari.

Difficile ricostruire tutti i possibili retroscena di una “marcia indietro” che viene pensata all’interno dell’azionariato di Mediobanca, soprattutto dall’attuale asse di maggioranza, rappresentato da Geronzi, dai soci del Gruppo C (gli investitori esteri) e dalla maggioranza dei soci industriali. C’è in realtà un nuovo contesto politico, dopo le elezioni di primavera e del centrodestra, accompagnato da un’impopolarità crescente nei confronti del sistema bancario, soprattutto verso coloro che inquadrano la banca innanzitutto come impresa, dove si devono massimizzare i profitti e non pensare alle strategie di sistema. Forse è in questo contesto (anche politico, inutile fare gli schizzinosi) che matura “il ritorno al passato” di Mediobanca. Si cerca di farlo in modo indolore, perché si sa che il management della merchant bank sarebbe sensibile a un ridimensionamento del suo potere e anche perché in altre sedi si pensa sempre a difendere uno schema anglosassone, di stretta osservanza liberista.

È così che, improvvisamente, a metà luglio compaiono articoli sulla possibile “restaurazione” a Mediobanca. È così che insorge il management e arrivano, anche tra i grandi soci, quelli che frenano. Ma Geronzi, i francesi di Vincent Bollorè e Tarak Ben Ammar, i soci come Marco Tronchetti Provera e Ligresti, come Mediolanum e Fininvest non retrocedono di un dito, e fanno passare, all’unanimità il ritorno al tradizionale.

Non è possibile non vedere un passo significativo in questo “ritorno al passato”. Non si può nemmeno dire, sbrigativamente, che sia un ritorno alla “politica”. Forse c’è solo il recupero di una visione strategica del banchiere e non l’attivismo di quelli che Cuccia e Maranghi chiamavano “grandissimi bancari”.

(Foto: Imagoeconomica)